Crimini di guerra


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Un pezzo nascosto di storia italiana del Novecento
L’accordo di Dayton
(1-21 novembre 1995)


Luglio 1994-Luglio 1995, un anno di guerra

In seguito al rifiuto della ventesima proposta di pace negoziata dall’inizio della guerra, i serbo bosniaci iniziarono nei primi giorni di agosto del 1994 a recuperare con la forza alcune delle armi pesanti consegnate all’Onu nei mesi precedenti, ottenendo in risposta solo uno sterile raid aereo della Nato il 5 dello stesso mese. Il 7 di agosto poi il Parlamento di Pale proclamò l’economia di guerra e la mobilitazione generale nella Repubblica serba di Bosnia, mentre il 28 e il 29 agosto la popolazione sancì ufficialmente il “no” dei serbo bosniaci al Piano di pace del “Gruppo di contatto”, risposta già data da tutti per scontata da tempo.

Nel frattempo in Bosnia-Erzegovina gli scontri continuavano su tutti i fronti. L’esercito governativo infatti combatteva le truppe fedeli a Fikret Abdić nella sacca di Bihać, i serbi invece avevano ripreso le operazioni di pulizia etnica in Bijeljina e a Banja Luka, mentre a Sarajevo e nelle altre città controllate dai musulmani si erano intensificati gli scontri tra questi ultimi e i serbi.
All’inizio di settembre tra l’altro Milošević aveva infine accettato che un centinaio di osservatori scandinavi controllassero “la frontiera jugoslavo-bosniaca per garantire l’efficacia del blocco, imposto il 5 agosto ai connazionali d’oltre Drina”. Per premiare il passo distensivo del leader serbo, il 14 settembre Lord Owen comunicò a nome della comunità internazionale che sarebbero state alleggerite le sanzioni economiche contro Belgrado.
Nonostante le vibranti proteste di molti paesi arabi, l’Onu emanò quindi il 23 settembre la risoluzione 943 che sospendeva temporaneamente le sanzioni emanate contro Serbia e Montenegro due anni prima.
I malumori tra Nato e Onu intanto proseguivano per il ripetuto rifiuto dei rappresentanti delle Nazioni Unite di attivare il meccanismo della “doppia chiave”, che permetteva di dare il via agli interventi aerei dell’Alleanza Atlantica. L’approccio alla questione bosniaca delle due organizzazioni internazionali rimaneva infatti invariabilmente distante, con la Nato che era “decisa ad insistere sull’opportunità di usare effettivamente la forza militare, sebbene in misura limitata” e l’Onu che invece restava “ferma nel sostenere i principi d’imparzialità e l’uso delle armi solo in funzione di autodifesa”.

Le forze armate musulmane intanto, che tra luglio e settembre del 1994 avevano conquistato 200 chilometri quadrati di territorio ai danni dei serbi e si erano rafforzate dopo l’alleanza con i croati, il 3 ottobre scatenarono una nuova grande offensiva su più fronti, incuranti delle minacce dell’Unprofor di richiedere bombardamenti Nato anche contro di loro se avessero proseguito.
Concentratasi nella Bosnia settentrionale, l’offensiva croato-musulmana proseguiva quindi vittoriosamente, ma trovandosi le truppe serbe di Mladić in un’imprevista difficoltà Milošević non esitò a infrangere la sua promessa di chiudere completamente le frontiere tra Serbia e Bosnia, e così, mentre gli osservatori scandinavi “erano scaglionati solo in alcuni posti di blocco e non avevano neppure il diritto di ispezionare i camion di passaggio senza il permesso dei doganieri serbi”, da Belgrado ripresero ad affluire i rifornimenti militari e petroliferi a vantaggio dei serbo bosniaci.
In questo modo, e grazie anche al sostegno delle truppe musulmane fedeli a Abdić, entro la metà di novembre Mladić riuscì a riconquistare la maggior parte dei territori persi nei mesi precedenti, anche perché l’Unprofor continuava a mantenere una posizione passiva senza richiedere interventi aerei della Nato, come aveva d’altronde fatto anche per l’offensiva musulmana. Quando però si vide messa a rischio la sopravvivenza stessa dell’enclave musulmana di Bihać, il Consiglio di Sicurezza dell’Onu approvò il 19 novembre la risoluzione 958 voluta dagli americani, che prevedeva la possibilità per la Nato di intervenire anche in territorio croato, se fosse servito per difendere le zone di sicurezza in Bosnia. Due giorni dopo quindi una squadriglia dell’Alleanza atlantica bombardò l’aeroporto di Udbina, nei pressi di Knin, dal quale partivano quotidianamente gli aerei serbi diretti a Bihać, ripetendo l’operazione il 23.
L’Unprofor aveva però dato mandato di attuare solo un’azione dimostrativa, distruggendo la pista d’atterraggio ma senza danneggiare i mezzi dell’aviazione, soprattutto per volere di Gran Bretagna e Francia, timorose per i propri soldati in Bosnia, appoggiate ovviamente dalla Russia. Nonostante però le premure anglo francesi nei confronti dei serbo bosniaci, la lieve azione bellica contribuì invece a spingere questi ultimi all’azione, ed infatti si vendicarono prendendo in ostaggio quasi 400 caschi blu in tutta la Bosnia, convinti ormai di poter godere di una sostanziale impunità dovuta ai contrasti in seno al Consiglio di Sicurezza.

Gli statunitensi intanto, nonostante l’amministrazione Clinton dovesse destreggiarsi tra la volontà del Congresso di appoggiare i musulmani e la contrarietà invece dei principali alleati europei e dei russi, proseguivano comunque nel loro sostegno materiale e tecnologico al governo di Sarajevo, come confermò la visita alla città del 9 gennaio del 1995 del vicesegretario di Stato per gli affari europei Richard Holbrooke. La strategia dell’ala dell’amministrazione Clinton avversa a Belgrado, capeggiata da Tony Lake e Madeleine Albright, correva “sui binari paralleli del sostegno diplomatico e di quello militare ai croati e ai musulmani, nella speranza tuttavia che la ristrutturazione delle loro forze armate costituisse un deterrente tale da spingere i serbi a una seria trattativa.”. Alla fine di gennaio intanto il generale britannico Rupert Smith aveva sostituito il suo pari grado Rose al comando dell’Unprofor in Bosnia-Erzegovina, e il nuovo comandante sembrava intenzionato ad agire senza sottostare unicamente agli interessi del governo di Londra, come fatto invece dal suo predecessore.

Nel febbraio del 1995 riprese inoltre, dopo una sostanziale pausa invernale, la controffensiva serba nella zona di Bihać, ed anche Sarajevo e le enclave bosniache subirono intensi bombardamenti, mentre il 13 dello stesso mese il Tribunale dell’Aja emise i primi 21 mandati contro altrettanti responsabili di crimini di guerra nel lager serbo di Omarska.
La ripresa dei combattimenti vide però scontrarsi due eserciti ormai sostanzialmente alla pari, e gli attacchi condotti dalle truppe di Mladić contro le enclave bosniache non sortirono i successi a cui si erano abituati i parlamentari di Pale, scatenando così in aprile un aspro scontro politico tra i sostenitori del comandante dell’esercito bosniaco e quelli di Karadžić. Mladić però, potendo contare sull’appoggio di Milošević, riuscì ad evitare che l’ex psichiatra di Sarajevo lo sostituisse con un’azione di polizia, e rimase quindi saldamente a capo dell’esercito. Tra l’altro, nel giro di alcuni giorni sia Mladić che Karadžić si trovarono accomunati nella nuova lista dei criminali di guerra resa nota dal Tribunale internazionale.

Nei primi giorni di maggio, anche per compensare le perdite territoriali nella Slavonia orientale in seguito all’offensiva delle truppe croate di Tudjman, Mladić scatenò un violento bombardamento sulla città di Sarajevo. Ancora una volta i funzionari dell’Onu evitarono però di richiedere l’intervento aereo della Nato, con l’eccezione del nuovo comandante dell’Unprofor in Bosnia Rupert Smith, che si scontrò infatti con il volere dei suoi tre superiori, Akashi, Stoltenberg e Janvier, i quali temevano per la sorte delle truppe Onu dislocate in Bosnia, avendo i serbo bosniaci ripreso la pratica di catturarli per utilizzarli come ostaggi. Gli statunitensi tentarono allora di convincere nuovamente Milošević a spingere i serbo bosniaci ad accettare il Piano di pace del “Gruppo di contatto”, e lo fecero agendo con un’iniziativa autonoma inviando il diplomatico Robert Frasure a Belgrado, scatenando così nuovamente le proteste degli alleati europei.
Le trattative vennero però guastate quando Smith, sfruttando l’assenza del Generale Janvier, chiese ed ottenne il 25 e il 26 maggio che venissero bombardati vari depositi di munizioni nella cittadina di Pale. A quel punto il Canada e i paesi europei della Nato con truppe sul terreno si opposero al proseguimento dell’azione bellica, e quindi l’unico risultato che questi raid ottennero fu la cattura di nuovi soldati e funzionari Onu da parte dei serbo bosniaci, i quali iniziarono ad utilizzarli come scudi umani ammanettandoli all’esterno di postazioni militari per prevenire nuovi raid aerei.
Questo nuovo gesto sprezzante nei confronti delle Nazioni unite spinse i governi di Francia e Gran Bretagna ad imbastire ed inviare in tutta fretta una “Forza di reazione rapida” composta da più di diecimila uomini, armati pesantemente ed inviati in Bosnia nei primi giorni di giugno a sostegno dell’Unprofor, prima ancora che il Consiglio di Sicurezza desse il suo avallo a tale iniziativa il 15 giugno.

L’Onu decise però di scendere a patti con i serbo bosniaci promettendo di interrompere la richiesta di attacchi aerei in cambio della liberazione degli ostaggi, come svelò il “New York Times” rivelando tre incontri segreti avuti con Mladić nel mese di giugno dal generale Janvier assieme al suo predecessore De Lapresle.
Perdurava intanto l’assedio di Sarajevo, e da quando i serbi avevano chiuso le “strade blu” utilizzate dall’Onu per portare gli aiuti umanitari i suoi cittadini erano costretti nuovamente a patire la fame. I musulmani tentarono quindi di rompere l’assedio con un’operazione su vasta scala, che non poteva però avere successo essendo essi sprovvisti di sufficiente artiglieria pesante ed elicotteri per poter impensierire le postazioni d’artiglieria serbe.
A quel punto il generale Rupert Smith, “sostenendo che perfino le riserve alimentari dell’Unprofor stavano diventando scarse, riuscì finalmente a convincere il generale Janvier dell’opportunità di usare la Forza di reazione rapida per riaprire la “via blu” sul monte Igman”. L’operazione ebbe successo e dal 2 luglio i convogli umanitari ripresero a raggiungere Sarajevo, e nell’occasione per la prima volta i soldati dell’Unprofor che li scortavano iniziarono a reagire al fuoco dei serbi che li prendevano di mira dalle vicine trincee. Non venne invece accolta dai vertici dell’Onu in Bosnia la seconda proposta del generale Smith, ossia quella di utilizzare la “Forza di reazione rapida” per aprire un corridoio fino alla Drina ed assicurare la sopravvivenza delle tre enclave musulmane di Srebrenica, Žepa e Goražde, presidiate solamente da simbolici distaccamenti di caschi blu.


Il massacro di Srebrenica porta il conflitto verso gli accordi di Dayton

Mladić e Karadžić avevano infatti deciso di colpire là dove i musulmani erano più deboli, ossia proprio le tre enclave, fiduciosi di poter ottenere una rapida vittoria e presentare alla comunità internazionale il fatto ormai compiuto. Il 6 luglio ebbe quindi inizio l’offensiva serba su Srebrenica, attuata da Mladić con l’avallo di Milošević utilizzando circa duemila uomini, tra i quali erano presenti anche truppe regolari serbe e le “tigri” di Arkan. Le autorità musulmane chiesero immediatamente al contingente olandese dell’Onu la restituzione delle armi cedute nel 1993 in seguito all’accordo sulla smilitarizzazione dell’area, ricevendo però un rifiuto. La stessa risposta d’altronde toccò ai soldati olandesi quando, attaccati dai serbi in un posto di osservazione, il tenente colonnello Karremans a capo dei caschi blu chiese l’intervento aereo della Nato.
Nel giro di tre giorni le truppe di Mladić, presente in prima persona sul campo, avanzarono verso la città impadronendosi di altre postazioni dell’Unprofor, e solo quando il numero dei soldati olandesi catturati salì a 55 ed Izetbegović denunciò l’imminente caduta della città, i vertici dell’Onu si resero conto della gravità dell’offensiva in corso. Le poche truppe musulmane presenti nell’enclave non erano però in grado di fermare l’offensiva serba, e mentre i fuggiaschi della zona si riversavano nei pressi della postazione olandese in città, una nuova richiesta di Karremans di intervento aereo venne respinta.
Solo l’11 luglio diciotto aerei Nato sorvolarono infine le linee serbe colpendo però solo due carri armati, portando Mladić a minacciare di uccidere gli ostaggi olandesi e spingendo così il ministro della Difesa olandese Joris Voorhoeve a chiedere ad Akashi di fermare i raid, cosa che avvenne immediatamente.
I caschi blu ripararono quindi nel vicino villaggio di Potočari seguiti da una folla di più di 20.000 persone, ma solo a meno di 5.000 di loro fu permesso di accedere al campo militare. Un altro gruppo di 15.000 decise invece di tentare una sortita a piedi verso Tuzla, distante cinquanta chilometri da percorrere in territorio serbo, ma quando il 12 luglio vennero intercettati dai serbi, una parte di essi, per lo più militari, riuscì a proseguire verso l’altra enclave, mentre gli altri caddero in una serie di imboscate e vennero tutti fucilati sul posto.
Lo stesso giorno le truppe serbo bosniache arrivarono a Potočari e Mladić in persona, accompagnato da giornalisti e cameramen, promise al comandante olandese che donne, anziani e bambini sarebbero stati evacuati nel territorio controllato dal governo di Sarajevo, mentre gli uomini tra i 17 e i 60 anni avrebbero dovuto essere identificati per controllare che tra loro non vi fossero “criminali”. Sempre il 12 luglio il Consiglio di Sicurezza dell’Onu emanò la risoluzione 1004 con la quale chiedeva la fine dell’attacco serbo a Srebrenica con il ritiro delle forze dalla zona di sicurezza, ma ancora una volta la mancanza di un accordo tra americani e russi su un eventuale azione della Nato non permise di obbligare realmente i serbi a rispettare tale risoluzione.

Dal 13 luglio i serbi diedero quindi il via al massacro degli uomini e dei ragazzi che erano riusciti a trovare, secondo alcune fonti tutti i maschi sopra i 12 anni, trasportandoli prima nel villaggio di Bratunac dove misero poi in atto torture ed uccisioni di massa per quattro giorni interi.
Benché “già il 13 luglio le notizie che qualcosa di terribile stava avvenendo a Bratunac cominciassero a raggiungere i vertici delle Nazioni Unite, Jasushi Akashi chiese che non fossero rese pubbliche per non mettere in pericolo gli osservatori militari dell’Onu ancora a Srebrenica. Solo il 16 e il 17 luglio, quando i giornalisti ebbero modo di intervistare i primi fuggiaschi raccolti all’aeroporto di Tuzla e i caschi blu olandesi rimpatriati attraverso Zagabria, cominciarono a trapelare le prime informazioni sul massacro in atto.”.
In quei giorni nella zona di sicurezza di Srebrenica persero la vita più di settemila persone.
Seppur inizialmente senza prove certe, se non le testimonianze dei fuggitivi, e con i serbi che impedivano l’accesso a Srebrenica, il massacro iniziò subito a dare vita a critiche e denunce a livello internazionale, soprattutto dopo che Madeleine Albright informò il 10 agosto il Consiglio di Sicurezza di possedere fotografie satellitari delle fosse comuni scavate dai cetnici. Venne insinuato sulla stampa anche il sospetto che la comunità internazionale e lo stesso governo di Sarajevo “avessero abbandonato l’enclave al suo destino, nel tentativo di rendere più semplice l’inevitabile divisione territoriale della Bosnia-Erzegovina”.

Sempre a metà luglio le truppe serbe attaccarono violentemente anche Zepa e, seppur vi trovassero maggiore resistenza tra i suoi difensori, se ne impossessarono il 25 luglio ma senza ripetere il massacro appena perpetuato, in quanto, grazie all’intervento di Milošević che mirava a presentarsi sempre più come l’uomo della pace, i civili furono tutti evacuati.
Il 20 e 21 luglio John Major convocò invece a Londra un “incontro di crisi” al quale parteciparono tutti i ministri degli Esteri e della Difesa dei paesi Nato, della Russia e rappresentanti dell’Onu, nella quale gli americani Christopher e Perry riuscirono a far approvare un documento fermo nei confronti dei serbi. Nel testo si dichiarava che la Nato avrebbe impedito la conquista di Goražde ricorrendo ad interventi aerei decisi dai comandi militari dell’Alleanza e dell’Onu, senza quindi dover più passare per l’approvazione delle autorità civili delle Nazioni Unite, e soprattutto si annunciava che i bombardamenti non avrebbero interessato solo le unità implicate nell’attacco ma sarebbero stati diretti anche verso installazioni militari e vie di comunicazione sotto il controllo di Pale in tutta la Bosnia.

Dopo la ferma presa di posizione occidentale, l’attenzione internazionale si concentrò invece sulla Croazia, dove tra il 4 e il 5 agosto l’esercito regolare diede vita all’”Operazione tempesta”, con la quale in meno di quarantotto ore riconquistò i territori della Krajina e la città di Knin in mano ai serbi dal 1991.
Tale azione, svolta brillantemente grazie al supporto americano e al non intervento dell’armata jugoslava, ebbe risvolti anche sul conflitto bosniaco, perché mentre i civili si rifugiarono in Serbia, un gruppo di 20.000 persone composto per lo più da militari si riversò invece nella regione di Banja Luka, andando a rafforzare le file dell’esercito serbo bosniaco.

Gli eventi bellici in atto, che portarono anche alla conquista da parte dell’esercito bosniaco di alcune zone controllate dai serbi nella Bosnia occidentale come dell’enclave di Bihać controllata da Fikret Abdić, crearono un nuovo rapporto di forze sul campo che Clinton volle sfruttare per concludere la guerra. Il presidente americano inviò infatti in Europa una delegazione diplomatica guidata da Anthony Lake, che aveva il compito di informare gli alleati non di una nuova proposta di negoziazione ma di una decisione già presa. Con la recente vittoria croata infatti Washington riteneva che se Milošević avesse acconsentito a riconoscere Croazia e Bosnia Erzegovina entro le loro frontiere in cambio dell’abolizione delle sanzioni, Karadžić si sarebbe ritrovato isolato e costretto ad accettare la spartizione prevista dal “Gruppo di contatto”. In caso contrario gli americani si dichiaravano pronti a bombardare i serbo bosniaci anche unilateralmente e ad abolire l’embargo per il governo di Sarajevo.

La spedizione diplomatica trovò risposte favorevoli nelle capitali europee, soprattutto per la fermezza con la quale aveva presentato la nuova iniziativa, ed avendo ottenuto anche l’appoggio del Cremlino, troppo occupato dalla contemporanea crisi in Cecenia per preoccuparsi dei serbi, dal 14 agosto il vicesegretario di Stato Holbrooke, accompagnato da una nutrita delegazione, iniziò a fare la spola tra Zagabria, Belgrado e Sarajevo per impostare il nuovo negoziato.
Nel frattempo sul terreno proseguiva anche l’offensiva militare croato-musulmana, alla quale i serbi risposero intensificando i bombardamenti su Sarajevo provocandovi il 28 agosto una nuova strage al mercato di Markale, nella quale vi furono 39 morti e 90 feriti.
Approfittando della contemporanea assenza del generale Janvier e di Boutros-Ghali, il sostituto del segretario delle Nazioni Unite Kofi Annan concesse il passaggio della “chiave” dell’Onu al generale Rupert Smith, il quale accettò subito la richiesta di agire dell’ammiraglio della Nato Leighton Smith, spinto da Clinton a compiere tale azione.
Nella notte del 30 agosto del 1995 ebbe così inizio l’operazione “Deliberate Force”, nella quale 60 bombardieri Nato eseguirono a tre riprese azioni contro postazioni e obiettivi strategici serbi nella zona di Sarajevo e di Pale, senza tra l’altro subire nessuna perdita. L’operazione proseguì anche nei giorni successivi con l’appoggio dell’artiglieria installata dalla “Forza di reazione rapida” sul monte Igman, mentre l’unico danno che i serbi riuscirono ad infliggere alle forze occidentali fu l’abbattimento di un aereo francese, i cui due piloti sopravvissuti furono catturati e imprigionati dai serbo bosniaci.
L’azione, che per la prima volta colpiva duramente le milizie e la popolazione serba, proseguì estendendosi ad altre zone della Bosnia fino a quando il generale Janvier, apertamente contrario, riuscì a bloccarla l’1 settembre adducendo la scusa del maltempo, dimostrando però di come ormai fossero gli americani i padroni della situazione.

La lezione americana, seppur volutamente limitata, non venne però percepita dalle autorità serbo bosniache ed in particolare da Mladić, il quale in risposta all’ultimatum della Nato di allontanare nuovamente le armi pesanti da Sarajevo permettendo a Onu e Ong libertà di movimento, proferì le ormai consuete minacce di ritorsioni, spingendo il segretario Nato Willy Claes a far ripartire il 5 settembre l’operazione “Deliberate Force”, anche in questa occasione senza chiedere il consenso del Consiglio dell’Alleanza atlantica.
Nei giorni in cui si svolse l’operazione il sistema difensivo serbo non venne comunque particolarmente danneggiato, potendo anche sfruttare i bunker costruiti da Tito in previsione di un’invasione del paese, ma permise a Holbrooke di convocare d’urgenza una conferenza a Ginevra dove riunì i ministri degli Esteri di Croazia, Bosnia e della nuova Jugoslavia, assieme ai rappresentanti del “Gruppo di contatto”, e dove vennero approvati dei principi di accordo comuni sui quali si sarebbe dovuta stabilire la pace.

Incurante delle proteste russe, come di quelle francesi e canadesi, l’amministrazione Clinton proseguì nella sua linea di condotta, continuando i bombardamenti Nato e dando il via libera ad una nuova offensiva croato-musulmana.
Contemporaneamente proseguiva anche il lavorio diplomatico di Holbrooke per convincere Milošević ad acconsentire alle concessioni richieste dagli americani, e i serbo bosniaci a ritirarsi dall’assedio di Sarajevo. A metà settembre Mladić e Karadžić iniziarono a cedere, accettando di incontrare a Belgrado il vicesegretario di Stato americano e dichiarandosi disposti a togliere l’assedio.
Il 14 settembre però l’offensiva di croati e musulmani nella Bosnia centrale li aveva portati a conquistare alcuni territori non previsti dal piano americano di spartizione del paese, e pur essendo ormai ad un passo dalla conquista di Banja Luka, che avrebbe messo in forse l’esistenza stessa della Repubblica serba, Washington comunicò subito a Zagabria e Sarajevo il suo veto a completare tale operazione. Il 20 settembre infine i serbi ottemperarono a tutte le richieste delle Nazioni Unite, permettendo anche la riapertura dell’aeroporto di Sarajevo, e dopo 3400 raid aerei cessò l’operazione “Deliberate Force”.

Per tutto il mese di settembre e di ottobre proseguirono quindi i colloqui diplomatici impostati dagli americani per raggiungere un cessate il fuoco e stabilire i principi sui quali firmare un accordo di pace, mentre intanto la Nato preparava un contingente militare comprendente la presenza americana, da mandare in Bosnia per sostituire l’Onu e mantenere la pace.
Allo stesso tempo proseguivano però anche gli scontri militari, con i serbi mal disposti a cedere nuove parti di territorio e i musulmano-croati, incoraggiati da Holbrooke a spingersi il più vicino possibile alla divisione prevista dal progetto americano, senza curarsi del fatto che tale piano stravolgesse la tradizionale struttura etnica del paese.
Il 10 ottobre venne sancita una tregua di almeno sessanta giorni che entrò in vigore il 12, mentre il 18 ottobre il “Washington Post” rivelò che le trattative ufficiali si sarebbero svolte nella base aerea Wright-Patterson di Dayton, in Ohio.

Il 1° novembre si avviarono quindi i colloqui di pace a Dayton con la partecipazione “delle tre parti in causa, capeggiate da Milošević, Izetbegović e Tudjman, a conferma che quella bosniaca non era stata soltanto una guerra civile, come la comunità internazionale aveva a lungo sostenuto.”. Warren Christopher aveva indicato i quattro punti fondamentali che il documento di pace doveva contenere, ossia il riconoscimento della Repubblica come Stato sovrano, articolato in due entità, con uno statuto speciale per Sarajevo e la chiamata in giudizio di tutti i criminali di guerra.
Vi erano però altri problemi sui quali si arenarono i colloqui durante la prima settimana, ossia il confine tra le due entità, il futuro assetto degli organi istituzionali comuni e le due richieste serbe, ossia avere il diritto di confederarsi con la Jugoslavia e ottenere uno sbocco sul mare.
Nel frattempo l’8 novembre Stati Uniti e Russia si accordarono sull’invio di 2500 soldati russi in Bosnia, che avrebbero partecipato alla missione della Nato seppur senza far parte dell’Alleanza.

Il 10 novembre Tudjman e Izetbegović firmarono il primo accordo delle trattative ufficializzando l’unione dei territori croati e musulmani in un’unica entità, mentre il 12 serbi e croati concordarono la reintegrazione pacifica della Slavonia orientale, ancora in mano serba, nella Repubblica croata.
Sui punti chiave però le trattative si erano arenate, scatenando polemiche nei Balcani e l’ira degli americani. Nonostante infatti le concessioni di Milošević, che aveva accettato l’indivisibilità di Sarajevo lasciandola ai musulmani e acconsentito alla creazione di un corridoio che avrebbe collegato la capitale a Goražde, rimanevano ancora molti contrasti sui confini interni della Bosnia.

Il 19 novembre allora i diplomatici americani interruppero le trattative intimando alle tre parti di decidere entro il pomeriggio successivo tra la pace e la guerra. In realtà i negoziati si protrassero fino al 21 novembre, e quando sembrava che anche questo tentativo di accordo dovesse fallire, Milošević acconsentì a restringere l’ampiezza del corridoio serbo nella Posavina ottenendo in cambio una parte di territorio in Bosnia centrale e soprattutto la promessa che l’appartenenza definitiva di Brćko sarebbe stata sottoposta entro un anno ad un arbitraggio internazionale.
Il distretto di Brćko, che permetterebbe il collegamento delle due parti serbe della Bosnia, è tutt’ora sotto la supervisione della comunità internazionale, ma la concessione fatta da Milošević permise infine di raggiungere l’accordo per la pace, che scontentava tutti ma poneva fine a più di 42 mesi di conflitto. La pace, che sarebbe stata firmata ufficialmente a Parigi il 14 dicembre, prevedeva quindi che la Bosnia-Erzegovina fosse formata dalla Repubblica serba e dalla Federazione musulmano-croata, alla quale andava il controllo di Sarajevo, e prevedeva “come organi comuni la Presidenza composta da tre membri, il Consiglio dei ministri, il Parlamento bicamerale, la Banca nazionale e il Tribunale costituzionale; di competenza del governo sarebbero stati la politica e il commercio estero, le dogane, la politica monetaria, quella dell’immigrazione le comunicazioni interne e internazionali e il controllo del traffico aereo”. Infine i profughi avrebbero potuto tornare alle proprie case, i criminali di guerra sarebbero stati perseguiti e tutte le forze militari straniere avrebbero dovuto lasciare il paese entro trenta giorni.
La Nato avrebbe quindi inviato 60.000 uomini nel paese, compresi 25.000 americani, con il compito di mantenere la tregua e garantire l’attuazione dell’accordo. Il 22 novembre quindi il Consiglio di Sicurezza dell’Onu emise due risoluzioni, la 1021 e 1022, che abolivano l’embargo sulle armi per i musulmani di Bosnia e le sanzioni contro la Jugoslavia, mantenendole invece verso i serbo bosniaci fino a quando non avessero ritirato le truppe dietro la linea di separazione.

L’accordo di Dayton venne accolto con sollievo dall’opinione pubblica internazionale, ma anche con scetticismo per l’avallo delle conquiste territoriali e della pulizia etnica serba, mentre in Europa si rilevavano le implicazione politiche, avendo gli americani praticamente escluso da qualsiasi ruolo di mediazione i diplomatici europei e russi presenti a Dayton.
Tornato in patria Milošević riconobbe quindi il governo di Sarajevo, e tentò senza successo di convincere Karadžić ad accettare l’accordo di Dayton. Il leader serbo bosniaco infatti fece di tutto per impedirne l’attuazione, minacciando attacchi ai soldati della Nato se fossero entrati in Bosnia e fomentando le proteste violente degli abitanti dei quartieri di Sarajevo che sarebbero passati sotto il controllo musulmano. Allo stesso modo i rappresentati dei territori musulmani che sarebbero passati all’amministrazione serba protestarono, ma senza poter impedire che il 30 novembre il Parlamento di Sarajevo desse l’assenso all’accordo.
In generale comunque la popolazione di ognuna delle tre etnie che si sarebbe ritrovata sotto il controllo di una fazione avversa decise in grande maggioranza di abbandonare le proprie abitazioni, e, come coloro che invece vi furono costretti per restituire le case ai legittimi proprietari, fece terra bruciata di quanto non poteva essere trasportato.


La copertura del “Corriere della Sera”

Nel corso delle trattative di Dayton, ossia tra l’1 e il 21 di novembre, i quotidiani italiani diedero una copertura alquanto differente al loro svolgimento.
Sul “Corriere della Sera“ ad esempio nei primi tre giorni di novembre venivano pubblicati tre diversi articoli di Ennio Caretto, corrispondete da Washington del quotidiano, relativi all’inizio delle trattative.
Nel primo articolo si annunciavano quali sarebbero stati i partecipanti alle trattative, con le tre delegazioni balcaniche guidate dai rispettivi leader politici che avrebbero dialogato in sei diversi gruppi di lavoro, assieme al segretario di Stato Christopher, al diplomatico Holbrooke e ai delegati delle nazioni facenti parte del “Gruppo di contatto”, in riunioni che sarebbero state tassativamente a porte chiuse per i media. Il giornalista poi asseriva che alla base di Wright-Patterson di Dayton le consultazioni sarebbero potute durare settimane se non mesi, ma che nonostante le molte difficoltà che vi si prospettavano si trattava di “una scommessa che gli americani” intendevano “vincere a qualsiasi costo”.
Il 2 novembre Caretto riferiva dell’inizio delle trattative e del discorso inaugurale pronunciato da Christopher, come anche di un primo accordo tra Milošević e Tudjman sulla Slavonia orientale, mentre una cartina illustrava i “sei dossier sul tavolo delle trattative”.
Il 3 infine il giornalista presentava un trafiletto dove correggeva la notizia data il giorno precedente riguardo alla Slavonia, sulla quale i due presidenti si erano in realtà per il momento “impegnati a risolvere la disputa pacificamente”, e riferiva poi delle quattro bozze di accordo presentate dagli Stati Uniti.

Il “Corriere” ritornava poi ad occuparsi delle trattative di Dayton il 10 novembre, con un articolo nel quale si riferiva che il giorno stesso sarebbe stato firmato l’accordo raggiunto da Tudjman e Izetbegović sul nuovo Patto federativo tra croati e musulmani di Bosnia, con il quale si consentivano il ritorno dei rifugiati alle proprie case e la riunificazione politica della città di Mostar, ancora divisa in due nonostante la presenza del sindaco tedesco dell’Ue. Nel testo si riferiva però che si era ancora lontani dagli accordi sulle questioni più importanti, ossia la Costituzione della Bosnia, la sua ripartizione territoriale e lo status di Sarajevo, per i quali l’ostacolo maggiore sembrava essere Milošević, restio a concedere il controllo della capitale e soprattutto contrario ad escludere Mladić e Karadžić dalle future elezioni bosniache.
Il giorno successivo quindi il quotidiano di via Solferino annunciava con un nuovo articolo che a Dayton era stata posta la “prima firma di pace” tra bosniaci e croati, con la quale veniva anche sancito implicitamente il “riconoscimento da parte della Croazia della autorità della Bosnia sulle minoranze croate nel suo territorio.”. Nello stesso articolo si riferiva però anche che la decisione di Tudjman di inviare truppe croate verso la Slavonia aveva turbato la conclusione del primo ciclo di trattative.

Nei giorni seguenti poi il “Corriere della Sera” smetteva di occuparsi dell’evolversi delle negoziazioni, concentrandosi invece, nelle notizie riguardanti la Bosnia, sulla discussione in corso al Parlamento italiano sulla possibilità di inviare anche soldati italiani tra le truppe Nato che avrebbero garantito la pace dopo l’eventuale conclusione positiva degli accordi.
Il quotidiano diretto da Paolo Mieli riprendeva dunque a pubblicare notizie sullo svolgimento delle negoziazioni in Ohio il 18 novembre, con un nuovo articolo di Ennio Caretto dove si sottolineava subito di come, nonostante il Dipartimento di Stato americano si rifiutasse di confermarlo ufficialmente, la pace in Bosnia sembrasse alquanto vicina. Il giornalista sosteneva tale tesi sulla base della decisione presa dai presidenti serbo e croato, Milošević e Tudjman, di normalizzare i rapporti tra i due paesi, ma soprattutto sul presunto compromesso su Sarajevo raggiunto dallo stesso Milošević con Izetbegović, per il quale la capitale bosniaca sarebbe stata unificata ma con dieci quartieri autonomi.

Il 21 novembre il “Corriere” tornava a parlare delle trattative di Dayton ma con tomi decisamente più pessimisti rispetto a quelli utilizzati pochi giorni addietro.
Sempre il giornalista Caretto riferiva infatti che la notte precedente gli accordi si erano arenati “su una striscia di terra lunga non più di cinquanta chilometri nella Bosnia settentrionale”, riferendosi con queste parole al cosiddetto “corridoio di Brcko” che collegava le due zone controllate dai serbi in Bosnia, corridoio di cui sia i serbi che i croati rivendicavano il controllo. Caretto riferiva poi che su tale questione lo stesso Bill Clinton aveva lanciato un diktat alle parti coinvolte, dichiarando che se non avessero trovato un accordo entro la mattina del 20 novembre le trattative sarebbero state sospese. Nello stesso articolo però il giornalista annunciava poi che tale ultimatum era passato senza conseguenze, e che le trattative continuavano febbrilmente, con l’amministrazione americana che sperava ancora che il trattato venisse firmato “almeno nella prima parte, quella sulla Costituzione e sulle elezioni”.

Il 22 novembre invece il “Corriere della Sera” riservava l’articolo principale della prima pagina al raggiungimento dell’accordo di pace, intitolandolo categoricamente “La guerra in Bosnia è finita”, ed accompagnandolo con una foto dei tre presidenti che si stringevano la mano.
L’articolo era però affiancato da un editoriale del giornalista che aveva seguito le trattative negli Stati Uniti, Ennio Caretto, il quale ammoniva i lettori di come “nell’euforia del successo negoziale di Dayton” fosse forte “la tentazione di dire che la crisi bosniaca” era risolta e “di dichiarare esaurito il grave compito dell’Occidente, una volta che la Nato“ avesse difeso la pace per un anno. Caretto sosteneva quindi che tale tentazione andasse respinta senza esitazione, e che “la pax americana” non fosse altro che un “primo incerto passo” per l’Occidente, che era “chiamato non ad abdicare dalla sua mediazione, ma ad intensificarla”.
L’articolo in prima pagina presentava quindi quattro scritti sulla pace di Dayton pubblicati tra pagina 2 e 3.
Nella seconda pagina veniva infatti proposto un lungo trafiletto nel quale si elencavano i punti fondamentali raggiunti nell’accordo e le questioni invece ancora aperte, ma soprattutto un altro articolo di Caretto sulle ultime ore che avevano preceduto la firma dell’accordo. Il giornalista ricordava infatti di come, dopo quattro “maratone notturne consecutive […] la rottura era data per certa”, ma che all’ultimo istante era invece stato raggiunto l’accordo, anche se non specificava su quali punti si fosse infine trovato il consenso delle tre parti. Poi, dopo aver riportato le dichiarazioni effettuate da Clinton davanti alle televisioni, Caretto citava le parole di Izetbegović secondo cui la pace poteva non essere giusta, ma era “più giusta della continuazione della guerra”.
A pagina 3 invece il “Corriere” pubblicava un articolo nel quale, partendo dalle dichiarazioni dei politici serbo bosniaci che affermavano di non voler firmare l’accordo e che rischiavano secondo il quotidiano milanese di avviare in Bosnia un “terrorismo alla libanese”, il giornalista Nava ripercorreva sinteticamente tutte le tappe della guerra.
Un altro articolo nella stessa pagina poi era scritto dall’inviato a Sarajevo Maurizio Chierici, il quale raccontava di una cena a cui aveva partecipato la sera precedente nelle cantine di un ristorante assieme ad alcuni abitanti della città, tutti appartenenti ad una diversa religione ma tutti concordi nel sostenere che la fede non rientrava minimamente tra le cause della guerra, ma che anzi dopo anni di comunismo era stata riscoperta dai più solo come presa di posizione politica in seguito allo scoppio del conflitto.

Anche il 23 novembre il “Corriere della Sera” affrontava esaurientemente i risvolti legati alla firma dell’accordo, pubblicando un articolo sul futuro dispiegamento delle truppe Nato in Bosnia e un’intervista sulla prevista ricostruzione al fondatore di “Medici senza frontiere” Bernard Kouchner. In particolare però il 23 il quotidiano di via Solferino pubblicava un nuovo articolo dell’inviato a Zagabria Massimo Nava, il quale riferiva che nelle capitali della ex Jugoslavia la sensazione più diffusa fosse che ci si trovava di fronte ad “una fragile pace, un accordo che ha spento la miccia ma lascia intatta la polveriera.”. Nava ricordava infatti che alcune questioni irrisolte, tra cui principalmente la punizione dei criminali di guerra e il dispiegamento della Nato su confini che sancivano la “pulizia etnica”, erano focolai capaci di far fallire il piano, soprattutto perché rendevano incerto “il ritorno di quasi quattro milioni di profughi”.
Sempre Nava ricordava poi in un altro scritto del 24 novembre che i serbi di Belgrado avevano ufficialmente accettato la pace, così che ora Milošević avrebbe potuto presentarsi come l’eroe che aveva cancellato le sanzioni economiche mentre aveva scaricato i suoi antichi “protetti” Mladić e Karadžić, i quali secondo il giornalista avrebbero prevedibilmente dovuto accettare il piano nonostante le loro relazioni burrascose.

Il 26 e 27 di novembre infine il “Corriere” pubblicava due trafiletti a riguardo del rifiuto dei serbo bosniaci di accettare la pace di Dayton, che avrebbe dovuto essere firmata ufficialmente a Parigi in data ancora da definire. Negli scritti si riferiva principalmente che Karadžić e Mladić contestavano l’unificazione della città di Sarajevo sotto il controllo musulmano, e che avevano ricevuto l’appoggio di una parte dei serbi rimasta in città, che era scesa in piazza a manifestare.


Il caso di “Repubblica”
Sul quotidiano “La Repubblica” il primo novembre un articolo di Paolo Garimberti annunciava l’inizio delle trattative a Dayton previsto per il giorno stesso, ma lo faceva concentrandosi sulla risoluzione votata dal Congresso statunitense il giorno precedente nella quale Clinton veniva invitato a non inviare truppe in Bosnia per il mantenimento della pace, richiesta che, secondo il giornalista, avrebbe “terribilmente minato” la credibilità del negoziatore americano Holbrooke.

Il 2 novembre sempre Garimberti firmava un articolo in prima pagina nel quale, oltre a spiegare nel dettaglio le modalità con le quali si sarebbero svolte le trattative, senza ad esempio che i tre presidenti potessero parlarsi direttamente prima di aver trovato un accordo attraverso i mediatori, sosteneva che i fattori psicologici avrebbero influito molto sull’esito delle trattative, in particolare “il sentimento di astio, disprezzo e sfiducia reciproca, che regna tra i tre attori principali”, unito alla variabile emersa negli ultimi giorni, ossia la “tendenza delle tre parti a usare gli ultimi avvenimenti per alzare il prezzo” della pace.
A pagina 8 dello stesso giorno vi era però un articolo firmato solo P. G., quindi presumibilmente scritto sempre da Paolo Garimberti, molto critico sull’accoglienza riservata a Dayton al presidente serbo Slobodan Milošević. L’autore del testo ricordava infatti di come Clinton durante la campagna elettorale del 1992 avesse dichiarato che Milošević avrebbe dovuto essere indagato “per crimini contro l’umanità” e che molti politici americani pensano “che egli sia la vera mente della bestiale pulizia etnica”. Il giornalista sottolineava quindi di come, nonostante la reputazione estremamente negativa del politico serbo, questi fosse stato accolto in america con gli onori militari, e partiva da questo episodio per esporre le sue considerazioni sul ruolo fondamentale che Milošević avrebbe sicuramente svolto a Dayton. Questo era, secondo Garimberti, il vero motivo per il quale il presidente serbo non era ancora stato accusato personalmente di nulla, e ne sottolineava di conseguenza l’acume politico e le capacità diplomatiche, portando come esempio la sua abilità nel dissociarsi dalle responsabilità di Karadžić e Mladić nel conflitto.
L’ultimo scritto del 2 novembre relativo all’avvio dei negoziati di Dayton pubblicato da “Repubblica” era, come già avvenuto in passato, un articolo del giornalista del quotidiano bosniaco “Oslobodjenje” Zlatko Dizdarević, che si dichiarava estremamente critico verso la nuova iniziativa di pace, in quanto secondo lui si sarebbe dimostrata utile solo ai politici, ma senza alcun tipo di giustizia per la popolazione.

Il 3 di novembre il quotidiano di Scalfari pubblicava un altro articolo di Garimberti nel quale si esaltava il primo accordo raggiunto a Dayton, ossia quello tra Tudjman e Milošević sulla Slavonia, presentando però la notizia con un giorno di ritardo rispetto al “Corriere”, che il 3 novembre aveva invece già provveduto a rettificarla annunciando che si era trattato solo di un accordo per risolvere pacificamente la situazione.
Era quindi il 4 novembre, all’interno di un trafiletto dedicato alla richiesta inviata a Dayton dal Tribunale Internazionale “di porre la consegna di Karadzic, Mladic e altre persone già rinviate a giudizio per operazioni di pulizia etnica, fra le condizioni di qualsiasi intesa di pace”, che “Repubblica” riportava che l’accordo raggiunto dai presidenti croato e serbo prevedeva la ripresa dei negoziati sulla Slavonia, senza fare riferimenti a quanto scritto da Garimberti il giorno precedente.
L’8 di novembre invece un breve articolo riferiva della presunta contrarietà di Milošević riportata dal giornale serbo “Nasha Borba”, sentimento dovuto alle nuove concessioni richiestegli dagli americani delle quali non era stato avvisato dal mediatore Holbrooke durante le sue visite preliminari a Belgrado.
Il 10 novembre un altro articolo di “Repubblica” annunciava che, mentre era stata “raggiunta un' intesa per l'applicazione del vecchio accordo sulla Federazione musulmano bosniaca”, il mandato di cattura internazionale spiccato dal Tribunale dell’Aja verso tre ufficiali dell’allora esercito jugoslavo, accusati per crimini di guerra commessi durante l’assedio di Vukovar, avrebbe probabilmente complicato le trattative.

Nei giorni successivi proseguiva poi la copertura quasi quotidiana data dalla testata romana all’evolversi dei negoziati di Dayton.
L’11 infatti un articolo di Garimberti prendeva spunto dalla firma ufficiale tra croati e bosniaci sulla loro Federazione per informare della decisione di Tudjman di inviare truppe al confine con la Slavonia, affermando però che si trattava sicuramente di una mossa tattica, in quanto un’offensiva militare avrebbe fatto saltare i colloqui di pace proprio nel momento in cui era la posizione di Milošević a vacillare, con il lavoro del Tribunale internazionale che stava permettendo ai mediatori americani di spingerlo ad accettare nuovi compromessi.
Il 12 un nuovo scritto riferiva invece che gli americani stavano mettendo pressione ai tre presidenti per trovare rapidamente un accordo, soprattutto sulla ripartizione del territorio bosniaco e sullo status di Sarajevo, mentre il 13 un altro articolo di Garimberti annunciava, questa volta ufficialmente, che non a Dayton ma bensì a Erdut in Slavonia “era stato raggiunto l' accordo per il ritorno pacifico della Slavonia orientale alla Croazia al termine di un periodo transitorio di due anni di amministrazione delle Nazioni Unite, garantita da una forza militare internazionale.”. Garimberti affermava poi, rifacendosi alle dichiarazioni del mediatore internazionale Stoltenberg, che tale accordo avrebbe potuto dare il via alla fase decisiva delle trattative.

Il 17 novembre sempre Garimberti riferiva che l’intesa per la pace in Bosnia sembrava vicinissima visto il ritorno a Dayton anticipato di Christopher, ma che la delegazione bosniaco musulmana avrebbe dovuto “rinunciare ad aree come Srebrenica e Zepa, emotivamente importantissime, ma diplomaticamente ormai secondarie” in quanto secondo il giornalista la loro appartenenza alla Bosnia non aveva “più molto senso, perché sarebbero incardinate in un' area serba e potrebbero essere fonte di nuovi scontri”.
Anche il 18 e il 19 “Repubblica” manteneva toni ottimistici sugli esiti delle trattative di Dayton, prima in un articolo sulla normalizzazione dei rapporti tra Croazia e Serbia, e poi con una breve sintesi sulle questioni territoriali sulle quali ancora mancava l’accordo.
Gli stessi toni venivano utilizzati dal quotidiano diretto da Scalfari anche il 20 novembre, seppur riferendo in un articolo che entro le 16 dello stesso giorno, ora italiana, si sarebbe saputo se i tre presidenti avevano scelto la pace o la guerra, in quanto il Dipartimento di Stato americano aveva fissato un ultimatum. Senza tenere conto della mossa disperata degli statunitensi per spingere i partecipanti a trovare un accordo, “Repubblica” sosteneva poi che molti segnali indicavano che ci sarebbe stata la pace, perché Tudjman era stato richiamato rapidamente a Dayton dove una squadra di traduttori era pronta a preparare gli accordi ufficiali, mentre a Bruxelles i ministri degli Esteri dell’Ue si riunivano per varare un piano sulla ricostruzione dei Balcani, ma soprattutto perché un quotidiano di Belgrado definito “un giornale di grande ortodossia governativa” aveva scritto per la prima volta che i serbi colpevoli di crimini di guerra avrebbero dovuto essere puniti, dimostrando quindi che Milošević aveva accettato di abbandonare i leader serbo bosniaci.
Il giorno successivo però un nuovo articolo di “Repubblica” sui negoziati comunicava che “l' ostinazione e la resistenza a trattare dei balcanici” avevano “avuto il sopravvento sull' esasperazione degli americani”, che avevano deciso di prolungare il tempo per le consultazioni nonostante l’ultimatum da loro lanciato, visto che le tre parti non erano ancora arrivate ad un accordo definitivo. Un trafiletto infatti informava che vi erano ancora tre punti in discussione, ossia lo status di Sarajevo, le dimensioni del corridoio che avrebbe collegato la capitale a Goražde e il controllo del territorio di Brćko.

Il 22 novembre “Repubblica” dedicava invece diversi articoli alla firma dell’accordo di Dayton.
In prima pagina veniva pubblicato uno scritto di Garimberti che criticava l’accordo, e nel commentarlo si schierava nettamente dalla parte dei musulmani che avevano “dovuto piegarsi al diktat della "realpolitik"” ed accettare ” una pace, che appare a tutti fragilissima” perché “fa della Bosnia un condominio di rissosi comproprietari, con un regolamento interno che contiene i germi di un altro conflitto balcanico.”. Il giornalista si dichiarava quindi pessimista sull’effettivo mantenimento della pace negli anni successivi, e faceva notare come fino alla fine dei negoziati tutti i contendenti avessero tentato di ottenere i territori strategicamente più importanti nel caso di una probabile ripresa del conflitto.
Nella seconda pagina veniva pubblicato poi un articolo che sintetizzava le tappe dei quarantatre mesi di guerra della Bosnia, mentre ancora Garimberti firmava a pagina 3 un breve pezzo sulla volontà di non firmare gli accordi appena stipulati espressa dal principale negoziatore dei serbo bosniaci Mom ilo Krajišnik. Nella stessa pagina veniva anche pubblicato un nuovo articolo di Dizdarević, il quale dichiarava che il piano elaborato a Dayton sarebbe servito a fermare la guerra, ma non sarebbe valso a fare la pace perché si basava su calcoli sbagliati, ossia sulla convivenza e sul ritorno dei profughi alle loro case. Il giornalista bosniaco sentenziava infine duramente che “I principi su cui l' Onu, la Ue, la Osce fondano la propria esistenza sono stati stracciati. Tra una pace artificiale e una giustizia elementare è stata scelta la prima.”.
Altri tre articoli venivano ancora dedicati il 23 novembre dal quotidiano romano all’accordo raggiunto a Dayton due giorni prima. Nel primo si approfondiva la notizia giunta da Pale della probabile decisione di rifiutare la pace, e si specificava che, nonostante Karadžić non avesse ancora rilasciato dichiarazioni ufficiali, vi erano forti tensioni tra Belgrado e i serbo bosniaci, come anche tra le due fazioni di questi ultimi capitanate dallo stesso Karadžić e da Mladić.
Un altro testo illustrava poi tutti i punti dell’accordo di Dayton, mentre il terzo articolo annunciava che con una risoluzione dell’Onu erano state cancellate la sanzioni economiche contro Belgrado, ma che sarebbero state subito reintrodotte se Milošević non avesse firmato l’accordo di pace nella cerimonia di Parigi.

Il giorno successivo invece “Repubblica” annunciava con un articolo che “la ribellione dei serbi di Bosnia all’accordo di pace” sembrava essere durata solo quattro giorni, in quanto l’agenzia ufficiale di Belgrado “Tanjug” aveva annunciato che Milošević era riuscito a convincere Karadžić ad accettarlo in una riunione nella capitale serba. Nel testo si sottolineava però che la svolta andava ancora “confermata dai fatti e dalle dichiarazioni pubbliche”.
Il 26 novembre “Repubblica” pubblicava poi un articolo dell’inviata a Sarajevo Renata Pisu, nel quale la giornalista riferiva delle manifestazioni svoltesi il giorno precedente nella periferia della città, dove gli abitanti serbi dei dintorni avevano manifestato contro l’accordo che dichiarava l’indivisibilità della capitale. Pisu sosteneva che i 40mila serbi di Sarajevo inorridivano “alla sola idea” della “spartizione urbana in quartieri etnici”, per poi riportare però l’intervista da lei effettuata a una cittadina serba favorevole al mantenimento di una città multietnica, la quale dichiarava che Karadžić e Mladić avevano spinto la gente per le strade minacciandola di rappresaglie, e che si trattava per lo più di profughi fatti arrivare nei dintorni dai politici serbi per rafforzare i ranghi dei combattenti.
Pisu sottolineava però che in realtà a Sarajevo si sapeva ben poco su quanto stava succedendo a Pale, ma che il presidente dell’Associazione dei cittadini serbi di Bosnia Erzegovina, Mirko Pejanović, sosteneva di come fosse ormai un problema di Milošević spingere i due leader serbo bosniaci ad accettare la pace, in quanto non poteva permettersi di rischiare il ritorno delle sanzioni nei confronti di una Serbia economicamente stremata.

Il 27 invece un articolo di “Repubblica”, nel quale si denunciavano i saccheggi attuati dalle truppe croate in alcune zone della Bosnia prossime a passare sotto il controllo serbo, riferiva anche la minaccia di ritorsioni contro le truppe Nato lanciata da Karadžić nel caso in cui queste avessero tentato di arrestare lui o altri leader serbi, come anche la sua volontà di recarsi a Parigi alla firma ufficiale della pace nonostante il mandato di cattura internazionale spiccato all’Aja nei suoi confronti.
Il 28 novembre tornava poi a essere pubblicato uno scritto dell’inviata Renata Pisu, spostatasi per l’occasione nel comune di Ilidza controllato dai serbi alla periferia di Sarajevo. Pisu nel suo articolo riportava quindi molte dichiarazioni raccolte tra cittadini comuni per la strada e politici locali, e la giornalista constatava con amarezza di come fossero tutti decisi a voler riprendere i combattimenti nel caso in cui non fosse cambiato lo status della capitale bosniaca deciso a Dayton, che assegnava la loro zona al controllo della Repubblica croato-musulmana.
Il 30 infine la stessa inviata di “Repubblica” pubblicava un articolo nel quale raccontava del suo spostamento a Pale, per verificare la veridicità delle voci circolanti nella cittadina dove risiedeva Karadžić, che asserivano di come il leader serbo bosniaco avesse trovato un fantomatico accordo con Milošević e gli americani per costruire una “nuova Sarajevo” nei pressi della capitale della Repubblica serba di Bosnia. Una volta giunta a Pale però, oltre a ricevere una pessima accoglienza in quanto giornalista straniera, Pisu aveva trovato solo povertà e una struttura di potere estremamente gerarchica, i cui rappresentanti si erano rifiutati di parlare con lei, mentre i pochi cittadini che aveva avvicinato si dimostravano ancora speranzosi che Karadžić avesse qualche carta nascosta da giocare.


”Il Giornale” e il “Secolo d’Italia
Sulle pagine del “Giornale” il primo articolo sull’avvio delle trattative alla base militare di Dayton in Ohio veniva pubblicato il 2 novembre a firma di Alberto Pasolini Zanelli. Il giornalista sosteneva che fra i tre contendenti, Tudjman e Milošević occupavano sul terreno più o meno quanto rivendicavano all’inizio della guerra, eccezion fatta per la Slavonia orientale che però a nessuno sembrava “degna di un conflitto”, mentre Izetbegović si presentava da sconfitto nel suo obiettivo di presiedere una Bosnia sovrana e multietnica, in quanto le intenzioni statunitensi prevedevano “una federazione tra tre comunità, due delle quali tribali e dunque destinate a diventare Serbia e Croazia, e una religiosa, culturale, astratta.”.
Dopo aver quindi contestato indirettamente l’esistenza di una comunità musulmana, Zanelli aggiungeva però che il presidente bosniaco aveva una carta da giocare durante le trattative, ossia il controllo di Sarajevo.

Il 4 novembre invece, mentre venivano pubblicati due articoli riservati alla concessione del governo sloveno all’Italia di localizzare i siti delle foibe sul suo territorio e alla discussione in Parlamento per l’invio dei soldati italiani in Bosnia, il “Giornale” dedicava invece solo un breve scritto alle trattative di Dayton, nel quale si specificava che le delegazioni stavano lavorando su questioni elettorali, costituzionali e militari, ma il testo si concentrava per lo più su alcuni piccoli scontri a fuoco avvenuti in Bosnia.
Anche l’11 novembre il quotidiano diretto da Feltri riservava solo un trafiletto all’annuncio della firma di Izetbegović e Tudjman con la quale avevano ufficializzato la nascita della Federazione croato-musulmana.

Successivamente, dopo ben dieci giorni di silenzio sull’argomento, il “Giornale” ritornava a dedicare un articolo alle trattative per la pace in Bosnia il 21 novembre.
Nel testo si riferiva che gli americani avevano lanciato un ultimatum alle tre parti per concludere l’accordo entro la mattina precedente, ma non essendo riuscite a raggiungerlo tale ultimatum era stato fatto slittare. L’articolo continuava affermando che gli scogli principali per arrivare alla pace erano lo status di Sarajevo ed il “corridoio che dovrà collegare la capitale bosniaca con i territori serbi della Bosnia settentrionale ed orientale”, affermazione errata la seconda, in quanto il “corridoio” al centro dei dibattiti era quello nella regione della Posavina nei territori circostanti Brćko, cioè la striscia di terreno che permetteva alle due regioni bosniache controllate dai serbi di rimanere collegate.

Il 22 novembre invece il “Giornale” dedicava interamente la quattordicesima pagina della sua edizione alla “presunta” fine della guerra in Bosnia, riservandole diversi articoli.
Il primo scritto, intitolato “Bosnia, la guerra è finita”, riferiva che, nonostante non si sapesse quali mezzi di persuasione avessero utilizzato gli americani per convincere i tre presidenti a firmare l’accordo, era lecito parlare di “pax americana”, in quanto dopo aver fermato le ostilità con i bombardamenti gli Usa avevano ora portato la pace in Bosnia. Il testo proseguiva poi riportando le dichiarazioni entusiastiche di Clinton e i punti salienti dell’accordo, che erano illustrati anche attraverso una mappa della Bosnia Erzegovina.
Un secondo articolo era poi riservato alla mobilitazione della Nato per l’invio dei soldati in Bosnia, mentre un terzo scritto non firmato raccontava invece le reazioni avute dagli abitanti di Sarajevo nell’apprendere della firma dell’accordo. Il giornalista riferiva che nella capitale bosniaca non vi erano state esplosioni di gioia e che non c’era “voglia di festeggiare davanti al mondo la fine del dramma” perché i cittadini erano stati delusi troppe volte “da uno sparo, da un colpo di cannone”, ed anche perché la guerra era stata fermata con la forza, l’unico modo possibile secondo l’autore, che sosteneva avrebbe dovuto essere attuato già molto tempo prima.
Infine, oltre a un trafiletto con una breve cronologia degli eventi bellici, il “Giornale” pubblicava un editoriale di Pasolini Zanelli intitolato “Molte enfasi per una pace che difficilmente reggerà”. Il giornalista sosteneva che fosse giustificato manifestare sollievo “per la firma di un accordo di pace”, ma che tale sollievo rischiava di trasformarsi “in entusiasmo, che sarebbe invece fuori luogo”. Zanelli faceva notare infatti di come le stesse delegazioni presenti a Dayton non avevano esultato a quello che momentaneamente appariva solo come un poco convincente “risultato politico, istituzionale, protocollare dei negoziati”, e criticava la soluzione politica raggiunta per la Bosnia, in quanto a suo dire si era rafforzata la Bosnia unitaria ma con una presidenza collettiva debole, con troppe somiglianze con la “formula teorica della federazione jugoslava”.
Il giornalista infine concludeva manifestando nuovamente la sua contrarietà al tipo di accordo raggiunto, sostenendo infatti che, avendo esso creato frontiere ancora più lunghe all’interno della Bosnia Erzegovina, senza l’impiego dei soldati americani come “gendarmi internazionali” sarebbe stato “un progetto improponibile”.

Il 23 novembre il “Giornale” pubblicava un articolo che riferiva le caute dichiarazioni dei politici bosniaci al loro ritorno a Sarajevo, mentre riportava anche le parole infuocate del presidente del Parlamento serbo bosniaco Krajišnik, contrario all’accettazione del piano di pace, e i contrasti a Pale tra i sostenitori di Mladić e quelli di Karadžić. Non poteva poi mancare una breve raccolta di dichiarazioni a proposito della fine del conflitto rilasciate dagli “italiani d’Istria”, spesso coinvolti dal quotidiano diretto da Feltri.
Il 24 invece tra la prima e la sedicesima pagina veniva presentato un nuovo editoriale di Pasolini Zanelli, il quale riferiva le parole di un diplomatico americano che aveva dichiarato di come “la crisi jugoslava ha dimostrato una volta di più che la partnership politico militare fra l’America e l’Europa funziona soltanto quando è l’America a comandare: a decidere, a impegnarsi in prima persona, a pagare il prezzo che ne consegue.”. Zanelli concordava pienamente con il “portavoce del Dipartimento di Stato” di cui non faceva il nome, e sosteneva come fosse “impossibile dargli torto”. Per il giornalista infatti, anche se gli stessi americani avevano commesso molti errori nei primi anni del conflitto, quello principale era stato di lasciare agli europei il compito di risolvere la questione, e solo quando Clinton aveva fatto proprie le idee tedesche, e deciso unilateralmente di armare la Croazia e intervenire con l’aviazione, la guerra si era conclusa.
Sempre il 24 a pagina 16 era presente anche un articolo sull’invio di 2100 soldati italiani in Bosnia Erzegovina, nel quale si affermava che il giorno precedente si erano compiuti passi avanti nella normalizzazione del paese, grazie alle dichiarazioni di Karadžić favorevoli all’accordo di pace e grazie alla cancellazione da parte dell’Onu delle sanzioni contro i paesi della ex Jugoslavia.
Il 26 novembre infine il “Giornale” riferiva con un articolo che il generale Mladić si era dichiarato contrario a lasciare il controllo di Sarajevo in mano ai musulmani, ed aveva appoggiato le manifestazioni contro l’accordo di Dayton svoltesi nei quartieri periferici della capitale. L’articolo prendeva però spunto da queste dichiarazioni per tornare a parlare dei soldati italiani che sarebbero stati dislocati proprio tra Sarajevo e Mostar.

Era invece del 2 novembre un primo articolo del “Secolo d’Italia” che annunciava che il giorno precedente erano iniziati a Dayton i negoziati per la pace in Bosnia, e nel testo si riferivano anche le affermazioni del mediatore americano Holbrooke che aveva rilevato degli irrigidimenti nelle posizione dei tre presidenti giunti in Ohio. L’articolo però ricordava subito che Holbrooke aveva “l’abitudine di affrontare i suoi compiti senza eccessivo ottimismo”, e che questa volta l’atteggiamento dei tre presidenti appariva “più positivo e ottimistico che in passato”.
Il 3 novembre il “Secolo” riferiva poi con un altro scritto che Tudjman e Milošević avevano firmato un’intesa sulla Slavonia con la quale si impegnavano a accelerare i negoziati e normalizzare i rapporti, ma nello stesso articolo si informava anche che vi erano stati scontri a fuoco in Bosnia, dove migliaia di civili serbi erano stati costretti dagli ultimi eventi militari a vagare senza meta come profughi nel loro paese.

Anche il giorno successivo, 4 di novembre, il quotidiano del Msi pubblicava un breve articolo di aggiornamento sulle negoziazioni, riferendo che queste proseguivano febbrilmente e che gli Stati Uniti si stavano impuntando soprattutto sulla rimozione dei leader accusati di crimini di guerra, mentre il nuovo inviato dell’Onu in ex Jugoslavia, Kofi Annan, si preparava già al probabile passaggio di consegne tra i caschi blu e il contingente Nato che sarebbe avvenuto in seguito all’eventuale accordo di pace.
Lo stesso 5 novembre un articolo simile riportava nuovamente le discussioni in corso alla base americana di Wright-Patterson sulle sorti di Mladić e Karadžić, e vi si riferiva inoltre che le negoziazioni nel territorio della Slavonia orientale erano state annullate per il rifiuto dei ribelli serbi di parteciparvi, con possibili risvolti negativi sull’andamento di tutte le trattative in Ohio.

Il “Secolo” ritornava poi a parlare delle trattative l’11 di novembre, con un articolo incentrato sull’arrivo di truppe croate nella zona di esclusione sul confine della Slavonia, secondo il quotidiano una mossa della Croazia per aumentare “la sua pressione sul terreno negoziale”.
Il giorno seguente invece il quotidiano del Msi, per annunciare l’ufficializzazione della Federazione croato-musulmana già concordata nel 1994, titolava il suo articolo sentenziando: “Si consolida il fronte anti-serbo”, anche se poi nel testo si riferivano semplicemente le responsabilità che sarebbero passate dal governo bosniaco alla Federazione, per concentrarsi invece sulle pressioni del segretario di Stato americano Christopher affinché i tre presidenti trovassero un accordo su Sarajevo.
Il 15 novembre il “Secolo” pubblicava invece solo un trafiletto sui punti ancora in discussione a Dayton, ossia lo status di Sarajevo e il “corridoio della Posavina”, mentre il 18 un altro trafiletto riferiva che Christopher e il ministro della Difesa Perry erano tornati a Dayton per tentare di chiudere i negoziati entro due giorni.

Il 19 novembre invece il “Secolo d’Italia” tornava a pubblicare un articolo sulle trattative di Dayton nel quale, oltre a ricordare che i negoziati erano fermi sulle questioni territoriali, si riferiva che il ministro degli Esteri bosniaco Sacirbey si era dimesso ma, a differenza di quanto riportato dall’”Unità”, si sottolineava più volte di come avesse dichiarato che le sue non erano dimissioni di protesta. Il “Secolo” riferiva infatti che Sacirbey, pur senza condividere gli accordi presi a Dayton, riteneva preferibile avere una “pace cattiva” piuttosto che la guerra, e che secondo lui l’accordo sarebbe stato raggiunto nella giornata successiva, con la divisione in zone autonome di Sarajevo e la concessione del “corridoio di Brcko” ai serbi in cambio di una striscia di terreno per collegare Sarajevo a Goražde.
Nell’edizione del 21 novembre il “Secolo” pubblicava invece un trafiletto dove riportava una sintetica cronologia dei principali avvenimenti della guerra in Bosnia, ed un articolo sulla mancata firma dell’accordo a Dayton nella giornata precedente. Nel testo non si faceva però riferimento all’ultimatum lanciato dagli Stati Uniti alle tre parti per concludere le trattative entro la mattina del 20 novembre, ma si affermava che “la cerimonia convocata […] per annunciare il successo o il fallimento di 20 giorni di negoziati di pace per la ex Jugoslavia” era stata “improvvisamente rinviata di alcune ore”. Il “Secolo” sosteneva che la causa del rinvio avrebbe potuto essere il rifiuto di Belgrado di estradare i tre ufficiali dell’ex armata jugoslava accusati di crimini di guerra durante l’assedio di Vukovar, mentre infine si riferiva dell’accordo tra serbi e croati sulla Slavonia orientale.

Il 22 novembre il “Secolo” riportava quindi l’annuncio dato la sera precedente da Clinton sul raggiungimento dell’accordo di pace a Dayton, ma nell’unico articolo dedicato alla notizia il quotidiano del Msi si concentrava maggiormente sul ruolo di mediazione degli americani e sui meriti del Presidente, illustrando solo con poche righe i punti salienti dell’accordo, come la divisione della Repubblica, il mantenimento dell’unità di Sarajevo e il divieto di ricoprire cariche pubbliche per i criminali di guerra.
Il giorno seguente poi il “Secolo d’Italia” pubblicava un breve scritto sui risvolti militari previsti per la Bosnia dall’accordo siglato in Ohio, ed un articolo sulle reazioni alla pace nelle repubbliche dell’ex Jugoslavia. In questo secondo testo si riferiva infatti che a Belgrado tutti i giornali avevano esaltato il ruolo svolto da Milošević a Dayton ed attendevano ora la fine delle sanzioni, mentre avevano minimizzato le dichiarazioni del serbo bosniaco Krajišnik che rifiutava l’accordo. Da Sarajevo e Zagabria si riferivano invece solo le dichiarazioni favorevoli alla pace dei principali politici.

Il 25 novembre il quotidiano del Msi pubblicava poi un articolo sulle pressanti richieste francesi di firmare ufficialmente la pace a Parigi entro i primi dieci giorni di dicembre, per evitare che azioni di guerra isolate come quelle svolte da croati e bosniaci il giorno precedente rovinassero il lavoro diplomatico.
Il “Secolo d’Italia” infine pubblicava il 28 novembre un articolo di Toni De Santoli sull’arrivo in Europa di Clinton, nel quale il giornalista prendeva spunto dalla mancata visita del Presidente americano alle capitali balcaniche per ricordare il ruolo fondamentale da lui svolto nel giungere alla pace di Dayton, per poi però accusarlo di essersi insediato nel gennaio del 1993 ed aver aspettato fino alla primavera dell’anno successivo per decidersi ad agire.
Il giornalista infine concludeva affermando che i bosniaci avevano fiducia nell’accordo raggiunto da Clinton, ma che essendo provati da anni di guerra se la fiducia fosse stata incrinata avrebbero potuto reagire con impulsività, mentre per conquistarla definitivamente la visita di Clinton a Sarajevo sarebbe stata un gesto “utile e grande”. Al di sotto dell’articolo di De Santoli il “Secolo” pubblicava anche un trafiletto dove riferiva le nuove rivendicazioni di Karadžić sul controllo di parte della città di Sarajevo, ma riportava anche le reazioni dei portavoce della Nato, che si dichiaravano pronti a reagire con la forza a qualsiasi tipo di provocazione.


”L’Unità” e “Il Popolo”

Sul quotidiano “L’Unità” il primo articolo sull’inizio delle negoziazioni alla base aerea Wright-Patterson di Dayton veniva presentato il 2 novembre, e vi si affermava che al loro avvio erano emersi subito segnali negativi, dato che i presidenti di Bosnia, Croazia e Serbia si erano “presentati senza mostrare la minima predisposizione al compromesso”, secondo quanto riferito dal mediatore americano Holbrooke.
Nel testo si riferivano poi a grandi linee le proposte statunitensi su cui lavorare, sintetizzate inoltre in una cartina pubblicata a fianco, e si sottolineava di come, nonostante l’assenza, Karadžić e Mladić, rappresentati da Milošević a causa del mandato internazionale spiccato contro di loro, riuscissero a condizionare fortemente i negoziati con la questione del “loro ruolo nella Bosnia del futuro”.

Il 3 di Novembre, posizionato dopo un articolo sul probabile invio di soldati italiani all’interno del contingente Nato, uno scritto aggiornava sull’andamento delle trattative di Dayton, riferendo innanzitutto che Tudjman e Milošević avevano firmato un accordo per normalizzare i rapporti tra i due paesi e risolvere la questione della Slavonia. Nel testo l’accento veniva però posto sulle dichiarazioni del segretario di Stato Christopher, il quale affermava che i soldati Nato non sarebbero andati in Bosnia fino a che Karadžić e Mladić fossero rimasti i leader politici dei serbo bosniaci. A questo proposito si ripercorreva quindi l’inasprirsi dei rapporti tra l’ex psichiatra e Milošević, che secondo l’”Unità” cercava da mesi di liberarsi di lui e delle sue idee integraliste.

Il quotidiano del Pds riportava poi nuovi aggiornamenti sulle negoziazioni in corso solo con un trafiletto dell’11 novembre, con il quale informava della firma di “un accordo che rafforza la federazione croato musulmana di Bosnia” e riunificava ufficialmente la città di Mostar.
Il giorno successivo invece un intero articolo veniva dedicato all’invio di truppe croate al confine con la Slavonia orientale ancora controllata dai serbo croati ribelli. L’autore, Fabio Luppino, riferiva però che la mossa di Tudjman veniva da molti considerata “un semplice strumento di pressione ad uso domestico”, e che si aspettavano risultati risolutivi sulla questione da Dayton, dove la delegazione croata chiedeva un reintegro immediato dei territori occupati dai serbi, mentre questi desideravano una fase transitoria di almeno due anni prima di tornare sotto l’autorità di Zagabria.

Dopo un’altra settimana di silenzio sulle trattative, l’”Unità” pubblicava un nuovo articolo il 19 novembre concentrandosi sulle dimissioni rassegnate dal ministro degli Esteri bosniaco Sacirbey e da quello della giustizia Padić, contrari agli accordi che si stavano delineando a Dayton, in particolare sulla presunta divisione in distretti autonomi di Sarajevo e sul controllo serbo del “corridoio della Posavina”.
Dopo aver riportato però le dichiarazioni di Sacirbey, il quotidiano diretto da Veltroni riferiva che il clima in Ohio sembrava meno ottimista rispetto ai giorni precedenti, basandosi sulle caute dichiarazioni dei politici e diplomatici americani coinvolti nelle trattative.
Il 20 novembre invece un articolo annunciava che il giorno precedente gli Stati Uniti avevano lanciato un ultimatum alle tre delegazioni presenti a Dayton, che avrebbero dovuto scegliere entro le 10 del giorno stesso tra la guerra e la pace. Nel testo si affermava che i diplomatici più insoddisfatti erano quelli musulmani, che avevano dovuto cedere ad alcuni compromessi sulle questioni territoriali. A questo proposito, a fianco dell’articolo, un trafiletto sintetizzava le dispute territoriali non ancora risolte, ossia quelle su Sarajevo e sul “corridoio di Brćko”.

Il 21 novembre in un altro articolo il giornalista Fabio Luppino riferiva che alla scadenza dell’ultimatum del giorno precedente l’accordo non era stato ancora raggiunto, ma dato che gli americani avevano “capito che si poteva aspirare a qualche risultato concreto” l’avevano trasformato da irrevocabile a giornaliero, per rimandarlo infine alla mattina del 21.
Luppino raccontava quindi degli ultimi tentativi della diplomazia americana di far accordare i tre presidenti, e ricordava che i bosniaci ritenevano imprescindibile per la pace l’unità della città di Sarajevo, ma che si erano impuntati anche sul corridoio della Posavina, perché ritenevano che lasciarla ai serbi avrebbe significato offrirgli “un pretesto sostanziale per una futura secessione della repubblica serbo bosniaca e relativa annessione di questa alla repubblica serbo-montenegrina di Slobodan Milosevic. Ovvero la “Grande Serbia” garantita dalla mano diplomatica.”.

Il 22 novembre invece l’”Unità” riservava interamente la seconda e la terza pagina della sua edizione all’annuncio del raggiungimento dell’accordo a Dayton, intitolando a caratteri cubitali la prima pagina con l’annuncio: “In Bosnia è l’ora della pace”, accompagnato da una foto del momento della firma.
Sempre in prima pagina iniziavano anche due editoriali che terminavano poi all’interno, il primo di Rosetta Loy, nel quale si augurava che dopo la pace tanto attesa si riuscisse ora ad avere qualche speranza per il futuro dell’Europa e del mondo intero, e il secondo di Renzo Foa, che sosteneva invece che l’accordo di Dayton sarebbe stato “scolpito nella storia della diplomazia” ma avrebbe stentato “ad imporsi nella quotidianità”, perché la guerra in Bosnia aveva assunto una dimensione totalizzante a causa della sua durata, la sua ferocia e la sua estensione.
Foa infatti proseguiva affermando che, al momento dell’annuncio della pace dato da Clinton, aveva avuto un’impressione incoraggiante perché le condizioni riconoscevano solo in parte ciò che la guerra aveva provocato, ma allo stesso tempo si era posto degli interrogativi su quale futuro sarebbe corrisposto ai punti illustrati nell’accordo, ed in particolare su come avrebbero fatto i bosniaci a ricostruire la fiducia tra loro. Foa concludeva infine sostenendo che la pace non doveva essere lasciata a se stessa, per l’esistenza di un serio pericolo che la guerra ripartisse.
A pagina 2 era pubblicato poi un articolo sulle reazioni degli abitanti di Sarajevo all’annuncio della pace, con alcuni festeggiamenti e molto scetticismo, e si riferiva anche della grande copertura mediatica data all’evento sulle televisioni della Federazione jugoslava, con Milošević che aveva registrato di persona un messaggio da trasmettere ai cittadini. Nella stessa pagina vi era anche uno scritto di Mauro Montali che ripercorreva i momenti e gli avvenimenti da lui vissuti nell’assedio di Sarajevo dal febbraio del 1994, data del suo arrivo come inviato nella capitale bosniaca.
Nella terza pagina infine, oltre a un trafiletto sullo scontro tra Clinton e i repubblicani per l’invio delle truppe in Bosnia, veniva pubblicato l’articolo esplicativo dell’accordo appena raggiunto a Dayton, nel quale si riferiva che, dopo ore di attesa snervante, i tre contendenti erano scesi a compromessi permettendo a Clinton di annunciare al mondo la fine del conflitto, riportando poi i punti dell’accordo e soffermandosi in particolar modo sull’arbitrato internazionale previsto per il conteso territorio di Brćko.

Anche il 23 di novembre l’”Unità” dava moltissimo spazio all’accordo di Dayton, partendo da un editoriale del direttore Veltroni pubblicato tra la prima e la terza pagina, affiancato tra l’altro da una breve lettera sulla pace scritta da una bambina bosniaca ricoverata in Italia, della cui spontaneità sembra lecito dubitare dato che nei ringraziamenti finali inseriva anche quelli al direttore del quotidiano che le aveva fatto visita.
Lo stesso Veltroni nel suo lungo articolo parlava della difficile pace firmata a Dayton, assegnandone il merito agli statunitensi e sostenendo che la politica aveva permesso la riscoperta della speranza nei bosniaci. Prendendo spunto proprio da questa affermazione, Veltroni ricordava agli italiani che la politica non era solo “inconcludenza e rissosità” come poteva apparire in Italia in quel momento storico, ma era anche mediazione e risoluzione dei problemi, e che andava però guidata da “visioni e valori”. Ritornando poi sulla paternità americana della pace, il direttore dell’”Unità” ricordava che il processo di pace aveva subito un accelerazione dopo due decisioni prese dalla comunità internazionale, ossia il ricorso alla forza aerea come strumento di dissuasione, seguito da una più intensa attività diplomatica, senza ricordare che in realtà erano state entrambe iniziative americane praticamente unilaterali, e tralasciando che lui stesso si era più volte opposto agli interventi militari sulle pagine del giornale da lui diretto. Veltroni infine tracciava un bilancio molto positivo dell’operato in politica estera di Clinton, ricordando i suoi successi assieme a Christopher nei vari conflitti in corso nel mondo.
La terza pagina era poi completata dagli articoli sui preparativi della Nato per inviare le truppe in Bosnia, mentre a pagina 2 veniva pubblicata una lunga intervista sulla guerra appena conclusa al professore croato bosniaco Predrag Matvejević, nato a Mostar nel 1932.
Anche la quarta pagina era interamente dedicata alla Bosnia, con tre brevi interviste rilasciate all’”Unità” dai due calciatori balcanici, Boban e Savićević, e dal sindaco di Sarajevo Tarik Kupusović, che facevano da contorno ad un articolo di Fabio Luppino sui risvolti della pace firmata a Dayton. Luppino riferiva infatti che, mentre Izetbegović era stato accolto a Sarajevo da un migliaio di persone in festa, tra i serbo bosniaci erano già emersi contrasti sull’accettazione della pace stilata in Ohio, e il giornalista affermava che sarebbe stata “la capacità di dare garanzie alla pace a spostare anche le alleanze tra i serbi di Bosnia.”. Luppino riportava infine la ritrosia dei paesi europei nel “riconoscere il ruolo decisivo degli Stati Uniti per aprire la strada alla pace”.

Il 25 novembre invece il quotidiano del Pds pubblicava solo un breve articolo sulle proteste e le manifestazioni contro l’accordo di Dayton svoltesi il giorno precedente nel quartiere serbo Ilidza di Sarajevo, nel quale si riferiva anche che a Pale si era tenuta una riunione tra tutti i sindaci serbi dei municipi della capitale, mentre l’esponente serbo della Presidenza bosniaca aveva rivolto un appello ai suoi connazionali affinché accettassero la pace.
Il 28 poi l’”Unità”, oltre a riferire con un trafiletto che la firma ufficiale della pace sarebbe avvenuta l’11 dicembre a Parigi e a pubblicare un articoletto sulla volontà del mediatore Carl Bildt di rilanciare il ruolo dell’Europa nella ricostruzione della Bosnia, presentava un lungo articolo dell’inviato a Sarajevo Nuccio Ciconte, che aveva raccolto diverse testimonianze di persone che erano riuscite ad ottenere i permessi per attraversare il “ponte della fratellanza”, che collegava il centro della città con il quartiere serbo di Grbavica, ma che era ancora controllato da posti di blocco bosniaci e serbi divisi da soldati dell’Onu.
Il 29 invece si riservavano due articoli all’arrivo del primo contingente Nato a Sarajevo e un trafiletto su alcune manifestazioni contro Tudjman di profughi croati a Zagabria, ma soprattutto veniva pubblicato un articolo dove si annunciava che Karadžić aveva cambiato idea, decidendo di accettare gli accordi di pace e affermando che i serbi sarebbero stati amichevoli con i soldati americani, se questi si fossero dimostrati imparziali. Si ricordava però che allo stesso tempo i musulmani si aspettavano che i soldati della Nato arrestassero i criminali di guerra accusati all’Aja, tra i quali compariva lo stesso leader serbo, e che i serbi di Sarajevo proseguivano con le loro proteste, facendo prevedere un futuro tutt’altro che roseo.

Nel quotidiano “Il Popolo” il primo articolo sul “vertice di pace” in Ohio veniva pubblicato l’1 novembre, e vi si riferivano sostanzialmente le dichiarazioni dei partecipanti alle trattative, in particolare quelle del serbo Milošević e del serbo bosniaco Krajišnik.
Il giorno successivo un altro articolo riferiva invece che all’avvio delle consultazioni il mediatore americano Holbrooke aveva definito le posizioni dei tre presidenti “molto dure” e senza “predisposizione al compromesso”, mentre gli americani avrebbero presentato un pacchetto di pace diviso in dieci capitoli.

Il 3 novembre poi il “Popolo” pubblicava un lungo articolo di Ivana Tanga sugli sviluppi delle trattative intitolato “Prima intesa sulla Slavonia” e corredato da una mappa dei Balcani. Nel testo la giornalista specificava però che Tudjman e Milošević si erano impegnati “a intervenire personalmente per trovare una soluzione pacifica alla disputa” e per normalizzare le relazioni tra i due paesi, quindi non si era ancora giunti all’accordo vero e proprio. Tanga infine sottolineava che la dichiarazione di Christopher, secondo il quale la Nato non sarebbe andata in Bosnia finché Karadžić fosse rimasto un leader politico riconosciuto, favoriva Milošević, da tempo ai ferri corti con il politico di Pale.
Il 4 invece un altro articolo di Tanga riferiva che il giorno precedente a Dayton i colloqui erano stati sterili, e si era raggiunto solo un accordo sul ritorno alle loro case di 600 famiglie di rifugiati.
La giornalista segnalava poi che, mentre ora si sarebbe lavorato sulle questioni elettorali, costituzionali e militari, la Nato stava discutendo con l’Onu i piani per l’invio di soldati in Bosnia una volta raggiunto l’accordo di pace.

Il “Popolo” però, dopo essersi occupato per quattro giorni consecutivi delle trattative in corso a Dayton, si disinteressava totalmente delle negoziazioni per la pace in Bosnia fino al 21 novembre, data in cui pubblicava un nuovo articolo di Ivana Tanga.
Nel testo la giornalista riferiva che nella giornata precedente si era atteso invano l’annuncio di un accordo di pace e, senza menzionare l’ultimatum statunitense, segnalava che le trattative si erano arenate sullo status di Sarajevo e sul “corridoio che dovrà collegare la capitale bosniaca con i territori serbi della Bosnia settentrionale”, confondendo erroneamente con queste parole il “corridoio della Posavina” con il collegamento territoriale tra Sarajevo e Gorazde, come fatto anche dal “Giornale” lo stesso giorno.

Il 22 novembre invece il “Popolo” annunciava con una grande immagine in prima pagina l’accordo sulla pace in Bosnia, e pubblicava poi un lungo articolo della solita Ivana Tanga a pagina 11.
La giornalista asseriva quindi che l’accordo di Dayton fosse una nuova vittoria della diplomazia americana, perché erano stati l’intervento del segretario di Stato Christopher e le telefonate di Clinton a tenere aperta la strada della trattativa. Tanga riferiva poi a grandi linee i punti dell’accordo, sottolineando che la Bosnia sarebbe rimasta un Stato unico con Sarajevo unita, le due opzioni irrinunciabili del governo bosniaco per accettare la pace.
Anche il 23 novembre Tanga presentava un articolo dove illustrava dettagliatamente l’accordo raggiunto a Dayton, sottolineando che le forze Nato avrebbero potuto arrestare gli accusati di crimini di guerra ma non rintracciarli, mentre riportava le dichiarazioni del mediatore dell’Unione europea Bildt, secondo il quale il “lavoro difficile” iniziava ora con la ricostruzione. La giornalista infine ricordava di come si fosse creata una frattura nel campo serbo sull’accettazione definitiva del piano di pace.
Accanto all’articolo di Tanga veniva pubblicato anche un trafiletto sulle parole pronunciate dal Papa, che ringraziava Dio per lo storico accordo ed invitava a pregare affinché le vittime avessero la forza di condurre a termine la pace.

Il 24 novembre invece il “Popolo” presentava due articoli sugli scenari che si stavano aprendo dopo la firma dell’accordo, il primo relativo alle risoluzioni dell’Onu che annullavano le sanzioni economiche verso la federazione jugoslava di Serbia e Montenegro e l’embargo sulle armi imposto alle repubbliche della ex Jugoslavia, mentre il secondo articolo riguardava il compito che attendeva Clinton, ossia convincere il Congresso e l’opinione pubblica ad inviare soldati americani in Bosnia, compito per il quale il presidente aveva già predisposto un messaggio televisivo alla nazione per lunedì 27.
Il 25 novembre il quotidiano del Ppi pubblicava poi un altro articolo di Tanga sulla riunione tenutasi il giorno precedente a Belgrado tra Milošević e Karadžić, al termine della quale il leader serbo bosniaco aveva accettato l’accordo di Dayton e quindi, nonostante l’assenza di Mladić potesse significare il persistere della frattura tra i politici serbi, la giornalista affermava che “il cammino della pace in Bosnia” si era fatto più sicuro. Tanga riferiva però che da Pale erano giunte ancora rimostranze sullo status previsto per la città di Sarajevo, ma sosteneva che l’incontro dei sindaci dei quartieri serbi della città con Karadžić segnava un ulteriore “passo avanti” verso la pace.

Il 28 di novembre però il “Popolo” pubblicava un articolo dove invece si riferiva che i serbo bosniaci continuavano a richiedere la negoziazione dell’accordo sullo status di Sarajevo, proponendo tre soluzioni alternative al suo controllo totale da parte della Federazione croato-musulmana, chiedendo quindi che la città venisse divisa in due come era stato fatto a Mostar, o che alternativamente fosse posta sotto un protettorato internazionale oppure fatta divenire una città federale.
Nei giorni successivi poi il quotidiano si occupava delle operazioni in corso per il dispiegamento delle truppe Nato in Bosnia senza riferirsi più alle rivendicazioni serbo bosniache.


”L’Osservatore Romano” e “La Stampa”

Sulle pagine dell’”Osservatore Romano” invece l’1 novembre veniva presentato un articolo sull’avvio dei negoziati di pace, nel quale si annunciavano coloro che vi avrebbero preso parte, sottolineando però le difficoltà che avrebbero affrontato i mediatori americani ed europei per far raggiungere un accordo ai tre presidenti.
Il 3 un articolo riferiva poi della “dichiarazione comune” firmata a Dayton da Milošević e Tudjman, che si erano impegnati ad accelerare il negoziato sulla Slavonia orientale ed a normalizzare i rapporti diplomatici, senza presentarla come un’intesa già conclusa, come fatto invece da altri quotidiani.
Anche il 4 novembre l’”Osservatore” riservava un articolo all’intensificarsi dei negoziati di pace in Ohio, concentrandosi sui quattro punti chiave per l’accordo presentati dal mediatore statunitense Holbrooke, ma ricordando anche che le posizioni dei partecipanti restavano molto distanti sulle questioni territoriali.

Il 7 novembre poi, in un articolo dedicato a tutte le notizie collegate al conflitto bosniaco, si riferiva anche che i secessionisti serbi che controllavano la Slavonia, dopo essersi rifiutati di partecipare a dei colloqui previsti per sabato 4, il giorno seguente avevano invece respinto un nuovo progetto di pace presentato dai mediatori Galbraith e Stoltenberg.
Anche l’8 novembre, all’interno di un articolo dedicato al maltempo che contribuiva a peggiorare le condizioni delle popolazioni bosniache già stremate dalla guerra, il quotidiano della Santa Sede riferiva che la questione della sorte dei leader serbi accusati di crimini di guerra rischiava di bloccare i negoziati.
Il 9 novembre infatti l’”Osservatore” dedicava un articolo alle notizie raccolte da “fonti serbe” che segnalavano come Milošević si fosse lamentato delle pressioni ricevute dagli Stati Uniti per cedere a nuovi compromessi, dei quali non era stato messo a conoscenza negli incontri preliminari avuti a Belgrado con Holbrooke.

L’11 novembre poi, mentre un trafiletto riferiva dello spostamento di alcune truppe croate nei pressi della Slavonia orientale, un articolo annunciava invece la riunificazione ufficiale della città di Mostar decisa il giorno precedente dalle delegazioni croata e musulmana, che sarebbe stata siglata ufficialmente l’11 stesso. Nel testo si riferiva anche che gli americani avevano concesso alla Russia di aumentare la fornitura di gas che inviava in Bosnia, per migliorare la situazione di Sarajevo e contemporaneamente alleggerire anche le sanzioni sui serbi, che controllavano il gasdotto per la capitale. Infine si sottolineava che l’accusa di crimini di guerra mossa dal Tribunale dell’Aja contro tre ex ufficiali dell’Armata jugoslava complicava la posizione di Milošević all’interno dei negoziati.
Il 12 novembre l’”Osservatore Romano” proseguiva quindi con i suoi aggiornamenti quasi quotidiani sulle trattative in corso in Ohio, riferendo che era stata firmata ufficialmente la creazione della Federazione croato-musulmana, e ricordando che fino a quel momento l’autoproclamata Repubblica della “Herceg-Bosna” aveva agito sotto l’ala di Zagabria e che i suoi cittadini avevano potuto votare alle elezioni croate. Il 14 invece il quotidiano della Santa Sede riservava l’articolo principale della prima pagina al raggiungimento dell’accordo sulla Slavonia tra Croazia e separatisti serbi, che avevano accettato di ripristinare la sovranità di Zagabria. Nel testo si sottolineava che, seppur l’accordo fosse stato firmato a Erdut, ossia proprio in Slavonia orientale, l’intesa era “stata in gran parte messa a punto dai Presidenti della Croazia e della Serbia” nell’ambito dei negoziati di Dayton.

L’”Osservatore” poi pubblicava il 16 un lungo articolo sulle questioni territoriali ancora aperte che impedivano il raggiungimento di un accordo di pace, parlando nel dettaglio dello status di Sarajevo e degli altri territori contesi, riferendo però che i tre Presidenti sembravano invece vicini a un accordo sul progetto di costituzione presentato dagli americani.
Anche il 18 novembre un lungo articolo in prima pagina riportava gli sviluppi delle trattative di Dayton, annunciando che Izetbegović e Tudjman si erano accordati per il rientro a Bihać dei 25mila seguaci di Abdić, fuggiti in Croazia dopo che l’enclave era stata conquistata dalle truppe croato-musulmane a inizio agosto.
Il giorno seguente invece l’”Osservatore” riferiva che fonti diplomatiche citate dall’Ansa davano il negoziato “in bilico tra accordo e rottura”, mentre il dimissionario ministro degli Esteri bosniaco Sacirbey, che sosteneva di aver lasciato per cedere il posto a un croato bosniaco per rafforzare la Federazione, dichiarava che l’accordo si sarebbe raggiunto perché vi erano persone impazienti di sottoscriverlo, anche se non si trattava di un buon accordo.
Nell’edizione del 21 novembre invece l’articolo sulla situazione di stallo creatasi a Dayton, dove gli Usa avevano lanciato un ultimatum per chiudere l’accordo ma le trattative proseguivano a oltranza, era posizionato al di sotto del testo dell’Angelus pronunciato dal Papa domenica 19, nel quale il Santo Padre si appellava alla comunità internazionale affinché sostenesse e favorisse il cammino di pace in Bosnia Erzegovina.
Anche il 22 l’”Osservatore” riferiva del mancato accordo tra le delegazioni presenti a Dayton, senza annunciare quindi l’accordo di pace già raggiunto la sera del 21 come facevano gli altri quotidiani, a causa del fatto che il quotidiano della Santa Sede andava in stampa il pomeriggio precedente al giorno di uscita.

Il 23 di novembre quindi finalmente anche l’”Osservatore Romano” annunciava l’accordo di pace siglato a Dayton, e lo faceva posizionando in testa alla prima pagina il ringraziamento a Dio di Papa Giovanni Paolo II per il raggiungimento della pace, assieme alla preghiera per coloro che avrebbero dovuto portarla a termine. Tra la prima e la seconda pagina veniva invece pubblicato un lungo articolo sull’intesa raggiunta dai tre presidenti, mostrati in una foto al momento della firma, che il quotidiano della Santa Sede definiva però soltanto come l’inizio della pace, anche perché i serbo bosniaci non avevano firmato le carte ufficiali.
A pagina 2 erano presenti anche uno scritto con la spiegazione dettagliata dell’accordo firmato in Ohio, oltre a un breve editoriale di Pierluigi Natalia. Il giornalista scriveva che la speranza e la gratitudine per gli artefici del negoziato erano però accompagnate dai ricordi penosi di quarantatrè mesi di guerra, che impedivano alla gioia di trasformarsi in enfasi, e che obbligavano a uno sforzo maggiore “per ricostruire la convivenza, per dare concrete possibilità alla pace di porre nuove e più stabili fondamenta”.
Il giorno seguente poi l’”Osservatore” dedicava un articolo alle risoluzioni Onu che cancellavano le sanzioni e le embargo verso l’ex Jugoslavia, specificando nel dettaglio modalità e tempi con cui sarebbero state annullate, mentre il 25 un nuovo articolo riferiva che dopo l’incontro con Milošević, il leader serbo bosniaco Karadžić si era dichiarato pronto ad “applicare tutto quello che è stato concordato a Dayton, anche se ciò rappresenta un passo doloroso”.

Il 26 novembre invece un articolo riferiva delle manifestazioni e delle proteste svoltesi nei quartieri di Sarajevo controllati dai serbi, i cui sindaci si erano dichiarati contrari all’accettazione dell’accordo di Dayton, mentre Karadžić aveva risposto loro di continuare la lotta con mezzi politici.
Anche il 28 un altro articolo ritornava sulla questione, annunciando che Karadžić aveva cambiato idea affermando che il suo assenso agli accordi non riguardava lo status di Sarajevo, per la quale aveva chiesto una rinegoziazione ricevendo subito un netto rifiuto da Holbrooke. Si riferiva poi che il leader serbo bosniaco aveva anche minacciato i soldati Nato di non provare a catturarlo se non volevano subire pesanti ritorsioni militari.
Il 29 novembre invece un lungo articolo, riferendo della mobilitazione del contingente Nato diretto in Bosnia, segnalava che i serbi erano ancora restii a concedere il controllo totale di Sarajevo al governo bosniaco, ma che molto probabilmente una volta obbligati a farlo avrebbero abbandonato la città piuttosto che tornare a convivere.
Il 30 novembre infine, in un articolo sul probabile dislocamento territoriale delle forze Nato e sull’indagine in corso della Commissione Onu per i diritti umani, l’”Osservatore” ricordava che in Bosnia Erzegovina restava alta la tensione ma che la comunità internazionale stringeva i tempi di applicazione del piano di pace.

Anche sulla “Stampa” l’1 novembre veniva pubblicato un breve articolo che annunciava l’inizio delle negoziazioni alla base aerea di Wright-Patterson in Ohio per arrivare ad un accordo di pace in Bosnia.
Il 2 poi un articolo di Paolo Passarini, accompagnato da una mappa dove venivano segnalate le 6 principali questioni territoriali in discussione, riferiva delle dichiarazioni pessimistiche rilasciate dal negoziatore americano Holbrooke, al quale però non dava molto peso in quanto egli presentava spesso “le cose in modo peggiore di come realmente sono per fare poi risaltare di più l’eventuale risultato finale”, ma il giornalista concordava che comunque il negoziato avrebbe affrontato molte difficoltà.
Il 3 novembre un altro breve scritto di Passarini riferiva poi che gli americani avevano appoggiato la richiesta della delegazione bosniaca, secondo la quale non vi sarebbe stato nessun accordo se i due leader serbi accusati di crimini di guerra fossero rimasti ai loro posti, mentre il giornalista annunciava con poca enfasi che un vago accordo di principio tra croati e serbi aveva stabilito la volontà di trattare per la Slavonia.

Dopo alcuni giorni di silenzio la “Stampa” pubblicava un nuovo articolo sulle trattative di Dayton il 7 novembre, nel quale si riferiva che, oltre al lento procedere del negoziato, alcune indiscrezioni segnalavano l’irritazione di Milošević per le pressioni ricevute dagli americani sulla “rimozione” di Karadžić e Mladić dai loro ruoli, mentre veniva riportato con preoccupazione l’ultimatum lanciato da Tudjman ai ribelli serbi della Slavonia, che avrebbero dovuto lasciare il controllo della regione entro il 30 novembre se non volevano essere attaccati dalle forze croate.
L’11 novembre poi il quotidiano diretto da Ezio Mauro pubblicava solo un trafiletto sull’accordo raggiunto il giorno precedente che sanciva ufficialmente la nascita della Federazione croato musulmana.
Il 13 invece la “Stampa” pubblicava un articolo di Ingrid Badurina sull’accordo firmato in Croazia per “la reintegrazione pacifica della Slavonia orientale nel sistema costituzionale croato”, nella conclusione del quale la giornalista riferiva che il settimanale serbo “Nin” aveva scritto che Karadžić e Mladić erano pronti a ritirarsi dalla scena politica a condizione di non essere incriminati dal Tribunale internazionale dell’Aja.

Il quotidiano di Torino tornava poi a parlare delle trattative di Dayton solo il 18 novembre, con un articolo sulla normalizzazione dei rapporti diplomatici tra Serbia e Croazia, e soprattutto con uno scritto di Franco Pantarelli sull’inaspettato arrivo a Dayton di molti politici e diplomatici americani, fatto che poteva significare l’imminenza dell’accordo come anche invece il suo fallimento, in quanto si ricordava che rimanevano ancora insolute le questioni territoriali, costituzionali e dello status di Sarajevo.
Un altro articolo di Pantarelli veniva pubblicato poi il 20 novembre, e il giornalista riferiva che quella stessa mattina alle ore 10 americane era previsto un annuncio da cui si sarebbe saputo se l’accordo era stato raggiunto o se i negoziati erano falliti, ma non segnalava che l’orario era stato fissato da un ultimatum dei mediatori americani. Pantarelli riteneva poi probabile che le ultime schermaglie fossero un tentativo “per strappare in extremis qualche concessione in più nell’accordo”.
Il 21 novembre invece sempre Pantarelli riferiva che l’ultimatum americano, del quale non aveva dato notizia il 20, era stato rinviato, ma senza che fosse comunicato di quanto, e che “le indiscrezioni che trapelavano dal tavolo delle trattative erano talmente contraddittorie che nessuno poteva dire con certezza se e quanti punti fossero stati risolti e quanti e quali fossero ancora da risolvere.”.

Il 22 novembre la “Stampa” poteva finalmente titolare in prima pagina che in Bosnia era “il giorno della pace”, e nella stessa pagina pubblicava anche due editoriali di Vittorio Zucconi e Enzo Bettiza. Zucconi si dichiarava decisamente pessimista sulla pace raggiunta, che definiva come un “matrimonio d’odio” imposto dall’America, che aveva avuto di nuovo il compito di “risolvere una inutile strage fra europei”, formalizzando la convivenza di due popolazioni ostili che si reggeva sulla garanzia militare americana. Zucconi sosteneva infatti che la cessazione delle ostilità era stata possibile solo con l’intervento diretto degli americani e con l’accettazione da parte bosniaca della pulizia etnica e delle conquiste militari serbe, anche se concludeva dichiarando che una tregua ingiusta fosse comunque meglio di una guerra.
Nel suo scritto invece Bettiza usava tono più ottimistici, dichiarando che erano due i fattori ad assicurare a questa pace “una durata forse definitiva”. Il primo era l’ultimatum americano, ossia scegliere tra una pace garantita dagli Usa e una ripresa della guerra con gli arbitrati europei, mentre il secondo fattore era la volontà dei tre presidenti firmatari dell’accordo di raggiungere la pace, soprattutto senza la presenza di Karadžić, famoso per i suoi voltafaccia. Bettiza rilevava comunque le incongruenze dell’accordo stipulato a Dayton, dove era stata creata una “mostruosità internazionale”, ma asseriva che, dopo che gli americani avevano in parte disinnescato la bomba balcanica costruita anche dagli europei, ora toccava agli slavi congelarla per sempre.
La “Stampa” dedicava poi interamente anche la seconda e la terza pagina allo storico accordo, pubblicando un articolo di Pantarelli che riportava l’annuncio della pace dato da Clinton, riferendo anche che l’opposizione di alcuni serbi di Bosnia “non dovrebbe (in teoria) pregiudicare la pace”, ed infine un lungo articolo di Giuseppe Zaccaria che ripercorreva l’evolversi di quattro anni di guerra.

Il 23 novembre invece il quotidiano di Torino, oltre a presentare un editoriale di Barbara Spinelli molto critico sulla pace di Dayton per un’evidente mancanza di giustizia nei confronti dei difensori di una Bosnia unita, pubblicava anche un articolo sul rifiuto dei serbi di Pale di firmare la pace.
Nel testo si specificava però che era Momćilo Krajišnik a dichiararsi contrario, mentre Karadžić non si era ancora pronunciato in attesa di vedere le reazioni dei suoi uomini, anche se i comandi militari sembravano appoggiare Belgrado nell’accettazione dell’accordo. Sempre il 23 la terza pagina veniva invece interamente dedicata all’invio in Bosnia del contingente Nato e soprattutto all’analisi della situazione che i soldati italiani avrebbero trovato sul terreno.
Il 24 novembre poi la “Stampa” dedicava tutta la pagina 9 ai risvolti dell’accordo di Dayton, pubblicando un articolo di Zaccaria incentrato sulla clausola dell’accordo che permetteva ai soldati Nato di arrestare i criminali di guerra ma senza “dargli la caccia”, sulla quale il giornalista riportava le sue perplessità, soprattutto al riguardo dell’effettiva possibilità di arrestare un comandante militare come Mladić, se una pattuglia l’avesse incontrato per caso con la sua scorta senza averne preparato la cattura.
Nella stessa pagina era presente anche un articolo il cui titolo annunciava l’accettazione del piano di pace da parte di Karadžić, ma il cui contenuto in realtà si concentrava sulle risoluzioni Onu che annullavano le sanzioni e sul dispiegamento delle forze Nato in Bosnia, per dedicare invece solo le ultime righe alla nuova promessa dei serbo bosniaci di firmare l’accordo di Dayton. Sempre il 24 novembre un’intera pagina della “Stampa” era occupata da uno scritto di Enzo Bettiza contenente una riflessione dello scrittore sugli anni di guerra appena vissuti dall’ex Jugoslavia, nel quale l’Europa veniva duramente accusata di aver agito in malafede negando il nuovo Olocausto con la scusa della “fatalità balcanica”.

Il giorno successivo invece un articolo di Ingrid Badurina riferiva che i serbi dei quartieri Grbavica e Vogosca di Sarajevo avevano manifestato contro gli accordi di pace, dichiarando che se ne sarebbero andati tutti se la città fosse stata unificata sotto il controllo della Federazione croato musulmana. La giornalista comunque ricordava che in realtà la maggior parte degli abitanti se n’era già andata durante la guerra, mentre i residenti attuali erano “profughi serbi arrivati da altre zone del paese“.
Il 26 novembre poi, all’interno di un articolo sulla dislocazione delle truppe italiane in Bosnia, il quotidiano di Torino riferiva che Karadžić aveva annunciato la sua presenza a Parigi per la firma ufficiale della pace, nonostante ci fosse un ordine di cattura internazionale spiccato contro di lui, mentre il generale Mladić davanti ai quartieri serbi di Sarajevo aveva dichiarato che il suo esercito non avrebbe lasciato la città.
Anche il 27 la “Stampa” proseguiva nei suoi aggiornamenti giornalieri sui risvolti successivi all’accordo di Dayton, e in un articolo la giornalista Badurina riferiva di come Karadžić avesse dichiarato alla “Bbc” che l’accordo di pace non poteva applicarsi a Sarajevo, ed in caso contrario aveva minacciato di far diventare la capitale bosniaca una “nuova Beirut”. Nell’articolo la giornalista riportava anche la risposta negativa del mediatore Holbrooke, sia a riguardo di una rinegoziazione degli accordi che sulla presenza del leader serbo bosniaco a Parigi, il quale aveva prontamente ribattuto che nel tentativo di arrestarlo molti soldati occidentali avrebbero potuto essere uccisi.

Il 28 novembre il giornalista Passarini riportava invece, all’interno di un articolo sulle difficoltà incontrate da Clinton per far accettare in America l’invio di truppe in Bosnia, l’ennesima risposta negativa alle richieste di Karadžić, pronunciata in questa occasione dal consigliere per la sicurezza nazionale Tony Lake, che aveva dichiarato che una rottura dell’accordo avrebbe riaperto le ostilità portando al ritiro dell’offerta americana.
Il giorno seguente in un articolo simile Passarini riferiva anche che Karadžić aveva ammorbidito i toni delle sue dichiarazioni, affermando che gli americani sarebbero stati accolti come amici se si fossero presentati amichevolmente. Nella stessa pagina era pubblicato anche un reportage dell’inviato Giuseppe Zaccaria che informava sulle ultime devastazioni messe in atto dagli eserciti ancora attivi in Bosnia, una pratica attuata su abitazioni e infrastrutture nei territori che avrebbero dovuto essere poi ceduti alla parte avversa.
Infine il 30 novembre la “Stampa” pubblicava un articolo interamente dedicato alle nuove contestazioni dei serbi di Sarajevo, che accusavano Milošević di averli svenduti in cambio della fine delle sanzioni. Nel testo l’autrice Badurina ricordava infatti che “malgrado le dichiarazioni contraddittorie di Karadzic […] i dirigenti serbo bosniaci si ribellano apertamente alla soluzione “imposta” dagli americani.”.


Conclusioni e firma di Parigi

In conclusione, tra i quotidiani italiani analizzati solo il “Secolo d’Italia” e “Il Popolo” diedero sempre una copertura ridotta delle trattative di Dayton, riportando il primo anche pochi dettagli sull’accordo.
Tra i quotidiani a maggiore diffusione sia il “Corriere della Sera” che “L’Unità” dedicarono poca attenzione ai negoziati fino al momento conclusivo della firma, giudicando poi entrambi l’accordo abbastanza positivamente ma ritenendolo solo un primo passo verso la pace.

La Repubblica” invece seguì quotidianamente lo svolgersi delle trattative e criticò l’accordo raggiunto perché era sfavorevole ai musulmani e lasciava aperte molte possibilità di far ripartire il conflitto. Il quotidiano fondato da Scalfari tra l’altro era stato anche l’unico a mandare in seguito un inviato a raccogliere delle testimonianze tra i serbo bosniaci, per tentare di conoscere direttamente i loro pareri sull’accettazione della pace.

Anche “Il Giornale” criticò apertamente la pace faticosamente raggiunta in America, ma concedendo pochissimo spazio alle negoziazioni prima che conseguissero l’accordo finale, mentre “La Stampa” seguì più attivamente l’evolversi degli eventi e ritenne ugualmente ingiusta la pace raggiunta, perché legittimava le conquiste serbe come la pulizia etnica.

Infine “L’Osservatore Romano” concesse un'ampia copertura ai negoziati, ma questa si risolveva sostanzialmente in un bollettino giornaliero molto accurato, in quanto nei suoi articoli non emetteva praticamente alcun giudizio.

Prima che fosse però definitivamente conclusa la guerra, nei giorni che precedettero la firma ufficiale dell’accordo si svolse ancora un intenso lavorio diplomatico per definire gli aspetti civili ed economici relativi all’attuazione dell’accordo, e soprattutto per ottenere il rilascio dei due piloti francesi catturati dai serbi e ancora nelle mani di Mladić. Quando ciò avvenne, il 12 dicembre, nessuno credette a Parigi quando dichiarò di non aver fatto concessioni al leader serbo bosniaco, ed infatti Karadžić e Mladić, nonostante i mandati di cattura già emessi nei loro confronti, non vennero perseguiti dal Tribunale internazionale dell’Aja, ma si limitarono ad abbandonare la scena pubblica, come aveva previsto un settimanale serbo che denunciava l’esistenza di accordi segreti. La loro latitanza sarebbe infatti durata rispettivamente fino al 2008 e al 2011.
Finalmente quindi il 14 dicembre 1995 a Parigi, Izetbegović, Milošević e Tudjman firmarono ufficialmente l’accordo di Dayton, seguiti poi dagli esponenti del “Gruppo di contatto” e dell’Unione europea, anche se per alcuni giorni si ebbero ancora in Bosnia sporadici scontri tra gli eserciti presenti sul terreno.


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