Crimini di guerra


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Un pezzo nascosto di storia italiana del Novecento
I serbo bosniaci rifiutano il piano di pace del “Gruppo di contatto”
(Luglio 1994)


L’escalation militare porta alla proposta di pace del “Gruppo di contatto”

L’ultimatum inviato ai serbi dalla Nato tra il 9 e il 10 febbraio, che concedeva loro dieci giorni di tempo per ritirare le armi pesanti posizionate in un raggio di venti chilometri da Sarajevo o per consegnarle al controllo dell’Onu, non aveva però preso in considerazione quello che lo storico Pirjevec definisce “il fattore Žirinovski”.
In seguito all’avvertimento del Consiglio dell’Alleanza Atlantica infatti, l’ultranazionalista russo proclamò che un attacco contro i serbi sarebbe equivalso ad una dichiarazione di guerra alla Russia, scatenando con queste parole anche le altre forze politiche e militari del paese contrarie alle riforme di El’cin, che sfruttarono l’occasione per tentare di indebolirlo. Messo dunque sotto pressione da più fronti, il governo russo si vide praticamente costretto a mutare la politica accondiscendente tenuta fino a quel momento verso le iniziative occidentali in Bosnia, con il ministro degli Esteri Kozyrev che scrisse a Boutros Ghali mettendo in dubbio la legittimità dell’ultimatum della Nato e minacciando conseguenze nel caso in cui fosse stato messo in atto.

Forte dell’insperato appoggio russo, Karadžić si rifiutò allora di ritirare le armi pesanti dei serbo bosniaci posizionate attorno a Sarajevo o di consegnarle all’Unprofor, mentre la Nato si preparava ugualmente a bombardare con gli aerei posizionati nelle basi italiane e sulle portaerei che incrociavano nell’adriatico, incurante delle minacciose dichiarazioni contrarie di El’cin.
Fu quindi solo grazie all’intervento del Primo ministro inglese John Major che la situazione poté risolversi senza gravi conseguenze. Major infatti si recò a Mosca, dove convinse El’cin a proporre che fossero i soldati russi, sotto l’egida dell’Onu, a recarsi nella zona di Sarajevo per sovrintendere al ritiro o alla consegna delle armi dei serbi. Al Palazzo di Vetro la proposta venne accolta con favore, anche se i membri della Nato più risoluti, con in testa gli statunitensi, non ne furono chiaramente entusiasti.
Anche Karadžić e Mladić accettarono subito tale proposta, che permetteva loro in questo modo di evitare i bombardamenti della Nato potendo sostenere allo stesso tempo di non aver ceduto direttamente all’ultimatum dell’Occidente.
Così il 20 febbraio, giorno della scadenza dell’ultimatum, i parà russi arrivarono a Pale accolti quasi come degli alleati dalla popolazione, da loro tra l’altro salutata con le tre dita alzate nel classico saluto serbo ortodosso, che fugava così qualsiasi dubbio su quale fosse la fazione destinataria della loro simpatia.

Anche questo episodio contribuì ad inasprire i già pessimi rapporti tra il governo bosniaco e l’Onu, in quanto i musulmani di Sarajevo avevano dovuto rispettare l’ultimatum alla lettera consegnando alle forze dell’Unprofor tutte le armi pesanti posizionate a difesa della città, mentre i serbi avevano consegnato il 30 per cento del loro arsenale, spostando invece la maggior parte dell’artiglieria presso gli altri assedi in corso nella Bosnia, in particolare verso Goražde e Tuzla, due delle città dichiarate aree protette dall’Onu.
Ciò nonostante la tregua permise almeno di interrompere l’assedio di Sarajevo, che proseguiva ormai da 22 mesi, dando la possibilità di approvvigionare meglio la città e di riparare la rete elettrica e idrica, e facendo inoltre ripartire i servizi di prima necessità.

Negli stessi giorni poi la situazione sembrava volgersi in favore dei musulmani, in quanto la volontà degli statunitensi di raggiungere una pacificazione musulmano-croata aveva spinto il presidente croato Tudjman ad accettare il 21 febbraio un progetto di federazione tra croati e musulmani in Bosnia, rinunciando alle mire sull’Erzegovina e ritirando immediatamente le truppe regolari croate ivi presenti.
In cambio della sua collaborazione, Tudjman avrebbe ricevuto da Washington il benestare alla riconquista della Krajina, regione croata ancora controllata dai separatisti serbi, oltre a maggiori aiuti economici per far ripartire l’economia del paese. Se invece Tudjman si fosse rifiutato, gli statunitensi avrebbero spinto il Consiglio di Sicurezza dell’Onu a estendere alla Croazia le sanzioni già in vigore contro la Serbia, paventando inoltre di equipararlo agli esponenti del Consiglio croato della difesa (HVO), ossia l’esercito dei croato bosniaci dell’Erzegovina già accusati di crimini di guerra.
Pochi giorni prima anche l’estremista Mate Boban era stato sostituito alla presidenza dell’autoproclamata Repubblica della Herceg-Bosna dal più moderato Krešimir Zubak, e già il 23 febbraio venne firmato dal comandante del Consiglio croato e da quello dell’esercito bosniaco un cessate il fuoco che da quel momento in avanti venne sostanzialmente rispettato.

Nel frattempo i serbi, dopo essersi ritirati da Sarajevo, avevano intensificato gli attacchi nelle altre zone della Bosnia, ma per dimostrare loro che i rapporti di forza erano mutati, Washington decise il 28 febbraio di autorizzare due F16 della Nato ad abbattere quattro aerei delle forze armate jugoslave che avevano violato la No-fly zone bombardando Bugojino e Novi Travnik. Si trattava della prima azione di guerra compiuta dalla Nato dalla sua nascita, dato che nel corso della Guerra fredda non aveva mai sostenuto un combattimento.
Da quando il 31 marzo 1993 la risoluzione 816 dell’Onu aveva istituito il divieto di volare sui cieli di Bosnia, era stata violata quasi un migliaio di volte dall’aviazione jugoslava controllata da Belgrado. Ora per la prima volta l’Alleanza atlantica puniva tale violazione, e con grande delusione di Milošević da Mosca dichiararono che si era trattato di un intervento legittimo.
Forse anche grazie a questo episodio, Karadžić accettò di consegnare l’aeroporto di Tuzla all’Unprofor il 7 marzo, anche se in realtà grazie ad un accordo segreto stipulato con il generale Rose non venne mai utilizzato per inviare aiuti umanitari alla città assediata, e venne anzi chiuso nuovamente il 6 giugno.

Nel frattempo le trattative diplomatiche volute da Washington per una confederazione croato-musulmana proseguivano incessantemente. Il piano americano, ispirandosi al modello confederato svizzero, prevedeva la suddivisione della Repubblica in otto cantoni, tre a maggioranza musulmana, tre croata e due misti, con in comune presso il governo centrale solo la difesa e la politica estera, mentre per il futuro si prospettava una seconda confederazione di questa entità con la Croazia stessa.
L’11 marzo inoltre croati e musulmani firmarono ufficialmente un accordo di collaborazione militare, mentre gli statunitensi nei mesi successivi si preoccuparono di inviare al governo di Sarajevo collaboratori militari e sistemi di comunicazione satellitari, tutte azioni che evidentemente secondo loro non infrangevano l’embargo sulle armi ancora in vigore.
Mentre i musulmani avevano accettato le proposte statunitensi principalmente per chiudere almeno il fronte con i croati e ritornare a ricevere armi illegalmente attraverso la Croazia, i serbi si rifiutarono ovviamente di partecipare ai colloqui in corso ai quali erano stati formalmente invitati, ed oltre ad accusare Washington di parzialità rinvigorirono gli attacchi contro l’enclave di Bihać e ricominciarono a bombardare sporadicamente Sarajevo.
I vertici dell’Onu in Bosnia, ossia Akashi e Rose, erano contrari a reagire alle provocazioni serbe, ma questo non impedì che il 18 marzo a Washington Tudjman e Izetbegović firmassero alla presenza di Clinton l’accordo relativo alla confederazione dei due paesi.
Il conflitto era però ben lungi dal terminare, perché restava il fatto che sul campo i serbi, seppur ormai isolati militarmente, controllavano ancora il 70 per cento della Bosnia-Erzegovina, mentre l’accordo firmato da croati e musulmani prevedeva che la loro nuova entità ne controllasse almeno il 58 per cento.

I paesi europei, esclusa la Germania, avevano accettato controvoglia l’iniziativa diplomatica unilaterale degli Stati Uniti per riappacificare musulmani e croati, mentre a fine marzo l’Onu aveva deciso l’invio di altri 3500 caschi blu in Bosnia, accettando per la prima volta le truppe offerte dalla Turchia.
In seguito a questa notizia, e dopo che l’ambasciatrice Usa presso l’Onu Madeleine Albright si era recata il 30 marzo a Sarajevo per un colloquio con Izetbegović assieme a John Shalikashvili, capo di Stato maggiore dell’esercito statunitense, i serbi reagirono con una violenta offensiva contro Goražde, nella quale assieme alle truppe locali di Mladić furono coinvolte anche quelle jugoslave guidate dal capo di Stato maggiore Perišić, oltre ai gruppi paramilitari di Arkan.
L’enclave musulmana nella valle della Drina, seppur dichiarata area protetta, non era presidiata da nessun casco blu, ma solo da alcuni osservatori e funzionari dell’Onu. Nonostante ciò, il diplomatico giapponese Akashi si rifiutò di approvare le richieste di intervento che gli giungevano dalle forze Nato, perché a suo dire “non esisteva alcun pericolo per la popolazione civile”, e quando i carri armati serbi entrarono infine a Goražde “affermò che era tecnicamente impossibile fermarli con un’azione violenta, in quanto troppo vicini ai quartieri residenziali della città”.
Solo all’ultimo momento, quando la città sembrava ormai destinata a cadere, Akashi decise di richiedere l’intervento della Nato, che il 10 e l’11 aprile poté così ordinare due bombardamenti su truppe e carrarmati serbi. Anche in questa occasione era la prima volta che gli aerei della Nato colpivano dei bersagli terrestri, ma invece di intimidire Mladić, le due azioni lo spinsero a minacciare ritorsioni sui caschi blu presenti in Bosnia, minacce che furono messe in pratica il 14 aprile, quando le sue truppe ripresero l’assedio di Sarajevo prendendo in ostaggio 150 tra osservatori e soldati dell’Onu, tra quelli che erano stati posti malamente a controllare l’artiglieria consegnata dai serbi a febbraio.

Mentre Goražde restava sul punto di essere conquistata da un momento all’altro, i due rappresentanti civili e militari dell’Onu in Bosnia, Akashi e Rose, proseguivano però nel voler mantenere la neutralità tra le parti.
Il Generale Rose arrivò anche ad imporre ad un Sea Harrier della Raf di compiere il 16 aprile alcuni giri di avvertimento sopra un carro armato serbo prima di colpirlo, ottenendo in tal modo l’abbattimento dell’aereo britannico da parte della contraerea serba, mentre il 18 ancora Rose fece evacuare dall’enclave il personale Onu rimasto, che aveva il fondamentale compito di individuare i bersagli serbi da colpire, impedendo così di fatto qualsiasi ulteriore attacco Nato.
Dietro pressione di Washington però il 22 aprile fu convocata una riunione degli ambasciatori della Nato, che alla fine decise di inviare ai serbi un nuovo ultimatum di tre giorni, entro i quali avrebbero dovuto cessare le ostilità, ritirare le truppe a tre chilometri da Goražde e allontanare le armi pesanti a venti chilometri entro 5 giorni. In caso contrario, l’Alleanza Atlantica avrebbe ripreso gli attacchi aerei contro le forze e i bersagli militari serbi dell’area. Nuovamente, tali limitazioni vennero imposte anche ai musulmani, che avrebbero dovuto consegnare all’Unprofor le armi pesanti rimaste nell’enclave.
I russi tentarono di spingere i leader serbi ad accettare l’ultimatum, ma non ebbero inizialmente successo, e quando il 24 aprile vennero lasciati entrare a Goražde dei soldati ucraini e francesi dell’Unprofor seguiti da alcuni medici, divenne evidente che le truppe serbe non si erano affatto ritirare dalla zona. A quel punto Clinton chiese il deciso intervento della Nato, ma trovò l’opposizione di Mitterrand che aveva truppe francesi in città e temeva che fossero prese di mira.
I serbi però decisero di mettere in pratica le richieste dell’ultimatum il 26 aprile, probabilmente anche cedendo alle pressioni dell’inviato speciale russo Čurkin, il quale aveva fatto dure dichiarazioni rivolte agli estremisti serbi, che a suo dire si nascondevano “dietro alle spalle politiche del nostro paese per raggiungere i loro obiettivi”.
Ritirandosi a 20 chilometri dalla città, dopo aver comunque ridotto l’enclave da 350 a 30 chilometri quadrati, i serbi erano riusciti quindi a instaurare anche a Goražde il “Modello Srebrenica”, dato che l’Unprofor si era impegnata a disarmare la popolazione locale e a rinchiuderla in un perimetro ristretto, completando così, come scrisse con amaro sarcasmo “El Pais”, “la pulizia etnica per ragioni umanitarie”. La battaglia di Goražde inoltre ebbe come risultato quello di alzare ulteriormente la tensione tra Nato e Nazioni Unite, frequentemente in disaccordo su come impostare la difesa delle “zone di sicurezza”, che rimanevano ormai tali solo sulla carta.

Nel frattempo il presidente bosniaco Izetbegović era però riuscito ad assicurarsi nuovi aiuti militari dall’Iran, che forniva da tempo ai musulmani di Bosnia anche soldati della Guardia rivoluzionaria, e che il 7 aprile aveva riaperto per prima un’ambasciata a Sarajevo. I musulmani necessitavano però dell’appoggio croato per ricevere gli armamenti iraniani, e Tudjman acconsentì alle richieste di Izetbegović solo dopo aver ricevuto un tacito assenso da parte dell’amministrazione Clinton, che era scomodamente stretta tra le pressanti richieste del Congresso e dell’opinione pubblica americana per abolire l’embargo sulla Bosnia, e la contrarietà invece degli alleati europei.

Il 21 aprile inaspettatamente Clinton annunciò alla stampa che Stati Uniti e Russia, assieme alle “grandi potenze europee”, avrebbero promosso una nuova iniziativa diplomatica per le sorti delle Repubbliche nate dalla ex Jugoslavia. Nelle settimane successive prese così forma il cosiddetto “Gruppo di contatto”, la cui proposta originale era per altro partita da El’cin in seguito al già citato invio di caschi blu russi a Sarajevo nel febbraio del 1994.
Del Gruppo facevano dunque parte Stati Uniti, Russia, Gran Bretagna, Francia e Germania, mentre erano state sostanzialmente escluse senza molti riguardi Comunità europea e Nazioni Unite, probabilmente per tentare di rendere più efficaci i negoziati. Tale decisione provocò comunque le ire di Boutros Ghali, come anche dei paesi europei esclusi ma che erano sempre stati coinvolti a diverso titolo nelle trattative, come l’Olanda, la Spagna e soprattutto l’Italia.

Il 26 aprile si riunì quindi per la prima volta a Londra il “Gruppo di contatto”, che si spostò nei giorni successivi in Bosnia per negoziare direttamente con i rappresentanti politici delle fazioni in guerra.
Successivamente il 13 maggio a Ginevra il Gruppo presentò la prima stesura del nuovo Piano di pace, che prevedeva una tregua di sei mesi per dividere il territorio tra la Federazione musulmano-croata, che ne avrebbe racchiuso il 51 per cento, e la Repubblica serba con il restante 49 per cento. Le due entità sarebbero però rimaste federate in un unico Stato, la Bosnia-Erzegovina, e successivamente si sarebbe discusso dei problemi istituzionali e costituzionali.
Si annunciò anche che il Piano sarebbe stato presentato come una sorta di ultimatum agli eserciti della Bosnia. In cambio della sua accettazione infatti sarebbero state abolite tutte le sanzioni contro la ex Jugoslavia, mentre in caso di rifiuto l’Unprofor si sarebbe ritirata lasciando la Repubblica al suo destino.

Izetbegović rimase deluso dal fatto che Washington avesse accettato la divisione proposta da britannici e francesi, che prevedeva per la federazione croato-musulmana il 51 per cento del territorio invece del 58 stabilito dall’accordo con i croati dell’11 marzo. Allo stesso modo, anche Karadžić non era soddisfatto, in quanto la Repubblica serba avrebbe dovuto cedere un terzo del territorio che attualmente controllava.
L’unico apparentemente favorevole alla nuova proposta sembrava essere Milošević, il quale forse lo era in quanto necessitava di porre fine a un embargo che stava distruggendo l’economia serba, e considerava comunque altamente probabile la successiva annessione alla Serbia della metà serba della Bosnia.

Nella seconda metà di maggio iniziarono quindi gli incontri diplomatici, che si tramutarono poi il 7 giugno in un’ennesima conferenza a Ginevra per concordare la tregua tra le parti in causa. Il 10 giugno venne proclamato quindi il primo cessate il fuoco di un mese.
Karadžić non era però della stessa idea di Milošević a riguardo delle possibilità che una tale soluzione del conflitto avrebbe offerto per costituire la “Grande Serbia”, ed anzi, secondo lo storico Pirjevec, ormai questi puntava solo a sostituirsi al presidente serbo come guida di tutti i serbi dei Balcani.
Così mentre proseguivano i colloqui, l’ex psichiatra di Sarajevo non perse occasione per dichiarare la sua contrarietà alle percentuali di spartizione della Bosnia proposte dal “Gruppo di contatto”, ma nonostante tali affermazioni venissero corredate da sporadiche riprese dei combattimenti in territorio bosniaco, il 5 luglio a Ginevra il Gruppo riuscì a presentare infine le mappe ufficiali per la spartizione senza che ripartisse ufficialmente il conflitto. Il Piano doveva essere accettato entro il 19 dello stesso mese ma, a causa di alcuni dissensi tra le nazioni facenti parte del Gruppo, le iniziali conseguenze previste in caso di rifiuto di una delle parti si erano infine trasformate in vaghe minacce su un possibile inasprimento delle sanzioni economiche.

Nel campo musulmano Izetbegović, seppur contrario alle percentuali della spartizione, riuscì a convincere il governo di Sarajevo ad accettare il piano, perché tutte le altre opzioni possibili “sarebbero state peggiori”, anche se non si prevedeva il ritorno dei profughi nelle proprie case e nemmeno la punizione dei criminali di guerra.
Anche i deputati croato-bosniaci votarono a favore del piano il 16 luglio, ragionando alla stessa maniera dei musulmani, ed essendo tutto sommato soddisfatti dall’avere il 90 per cento della loro popolazione racchiusa nella futura confederazione con essi.
Radovan Karadžić non sembrava invece intenzionato a favorire l’accettazione del Piano da parte dei serbo bosniaci, e nonostante avesse firmato a Belgrado un impegno scritto per accettarlo, una volta tornato a Pale invitò il Parlamento che avrebbe dovuto votarlo a respingerlo.
A nulla valsero le pressioni internazionali che arrivarono dal G-7 che si svolse a Napoli tra l’8 e il 10 luglio, al quale tra l’altro partecipò per la prima volta anche El’cin, ed anzi a fianco di Karadžić si schierarono anche la Chiesa ortodossa e il capo di Stato maggiore dell’Armata jugoslava Perišić.

Così il 19 luglio, dopo quarantotto ore di discussioni, il Parlamento di Pale annunciò che avrebbe accettato il Piano, ma solo a sei condizioni che vennero inviate sotto sigillo a Ginevra.
Il giorno seguente le condizioni vennero rese pubbliche, ed in sostanza “chiedevano chiarimenti sull’ordinamento costituzionale della Bosnia-Erzegovina, sul cessate il fuoco, sullo statuto di Sarajevo […], sullo sbocco” sul mare per la Repubblica serba e sulla fine delle sanzioni contro la nuova Jugoslavia. I deputati chiedevano inoltre il riconoscimento internazionale del proprio Stato ed il diritto di unirsi alla Serbia, ma poi con un’abile mossa diplomatica aggiungevano che il Piano era per loro una base di partenza da cui proseguire le trattative.
Questo ultimo punto creò quindi una divisione tra i membri del “Gruppo di contatto”, con il rappresentante americano e quello tedesco che interpretarono tale risposta come un rifiuto, mentre i rappresentanti russo, britannico e francese la consideravano un’apertura al dialogo e non volevano applicare le misure punitive previste. Alla fine venne deciso di prolungare di altri dieci giorni il termine del 19 luglio, per tentare nel frattempo di convincere Karadžić ad accettare il Piano così com’era, decisione che si sarebbe ripetuta più volte nei mesi successivi senza portare ad alcun risultato.

Karadžić però era ben fermo nella sua decisione di non firmare il Piano, ed anche alla fine di luglio questo venne infatti nuovamente rifiutato dai serbo bosniaci, che accompagnarono tale rifiuto con una definitiva ripresa dei combattimenti, ossia con un nuovo blocco delle strade di accesso a Sarajevo e con alcuni attacchi contro i caschi blu, ai quali l’Unprofor non fece seguire alcuna reazione. A questo punto anche il “Gruppo di contatto”, la cui divisione interna non gli permetteva di reagire con decisione alle provocazioni, si accontentò di inasprire le sanzioni economiche verso la Serbia, nel tentativo di spingere Milošević ad esercitare la sua influenza sulle decisioni di Pale, e di prolungare per l’ennesima volta il tempo concesso ai serbo bosniaci per accettare il Piano di pace proposto.
Nonostante dagli ultimi giorni di luglio anche Milošević si fosse adoperato per spingere Karadžić a firmare il Piano di pace, imbastendo una campagna mediatica contro di lui su stampa e televisioni serbe e minacciando di chiudere le frontiere tra Serbia e Bosnia, questi non si lasciò convincere ed il 3 agosto indisse un altro referendum sulla questione da proporre ai serbo bosniaci per la fine del mese. L’esito negativo del referendum era ovviamente già scontato, ma permetteva comunque al leader dei serbo bosniaci di rimandare ancora le conseguenze derivanti dalla loro risposta, oltre che a nascondersi dietro al “volere popolare” di fronte alla diplomazia internazionale.


L’opinione dei quotidiani sulle risposte serbe al Piano di pace: “Il Popolo” e ”Secolo d’Italia”

Nel luglio del 1994 la stampa quotidiana italiana mostrò inizialmente scarso interesse sui progressi e i passi falsi diplomatici nell’attuazione del Piano di pace del “Gruppo di contatto”, mentre l’attenzione crebbe negli ultimi giorni del mese, quando cioè l’ennesimo rifiuto da parte dei serbo bosniaci portò di fatto alla ripresa delle ostilità.

Sul “Popolo”, ad esempio, il primo luglio si riferiva, in un articolo riguardante le sporadiche violazioni del cessate il fuoco in Bosnia, che il 5 dello stesso mese il Gruppo avrebbe presentato alle parti “una nuova bozza del piano, anche se non in via ufficiale”. Infatti poi il 5 luglio un nuovo articolo annunciava che nella stessa giornata si sarebbero incontrati a Ginevra, per definire i dettagli del Piano e i confini delle Repubbliche, i rappresentanti delle parti in lotta e i ministri del “Gruppo di contatto”, il quale veniva però presentato come composto da “Usa, Russia e Unione Europea”, senza specificare che Francia, Germania e Gran Bretagna vi partecipavano sostanzialmente a proprio titolo, e non in rappresentanza degli altri paesi europei.
Sul quotidiano del Partito Popolare però inspiegabilmente non si faceva più alcun riferimento ai progressi del Gruppo fino al 19 luglio, quando veniva invece riportato che sarebbe scaduto il giorno stesso l’ultimatum per l’accettazione del Piano, avvisando però che, nonostante gli sforzi diplomatici e le minacce militari della Nato, la possibilità di un accordo appariva ancora lontana.

Il “Popolo” ricordava infatti che, mentre Izetbegović e i croati avevano già accettato il Piano, seppur non totalmente favorevoli alle indicazioni in esso contenute, tra i serbi di Pale invece “l’orientamento prevalente sembra comunque quello di una dura opposizione al piano, che imporrebbe la rinuncia al territorio conquistato fin qui dalle milizie serbe”.
Il giorno successivo invece il “Popolo” pubblicava un trafiletto sull’accettazione del Piano con riserve da parte dei serbo bosniaci, mentre il 21 luglio veniva presentato un articolo di Arturo Pellegrini dove il giornalista affermava senza mezzi termini che l’assenso dei serbo bosniaci, demandato dalle 6 condizioni poste al “Gruppo di contatto”, era un sostanziale rifiuto del Piano stesso. A questo punto, sosteneva Pellegrini, l’Occidente si trovava di fronte a due scelte dalle conseguenze sicuramente scoraggianti, perché avrebbe dovuto o fingere che il rifiuto fosse “in realtà una base per riprendere il negoziato”, portando così ad una prevedibile reazione di croati e musulmani, oppure avrebbe dovuto mettere in atto le ritorsioni promesse contro i serbi, rischiando secondo il giornalista di estendere il conflitto a tutti i Balcani.

Anche il 22 luglio il “Popolo” pubblicava un articolo a riguardo dell’incertezza occidentale su come reagire al rifiuto serbo del Piano, a causa delle “divergenze emerse nel cosiddetto “gruppo di contatto””, dove il quotidiano riferiva che gli Stati Uniti chiedevano di abolire l’embargo ai musulmani incontrando però l’opposizione di francesi e britannici, e soprattutto dove Mosca riteneva che nella risposta serba vi fossero elementi positivi, ed andava quindi evitato di reagire militarmente.
Il 23 luglio invece, nell’articolo del quotidiano del Partito popolare relativo alla ripresa degli scontri in Bosnia, si riferiva ormai apertamente che la battuta d’arresto dei negoziati di Ginevra era dovuta al “rifiuto da parte delle milizie bosniache di accettare il piano di spartizione”.

Nei giorni successivi invece il “Popolo” lasciava in disparte la situazione di stallo creatasi in Bosnia, per concentrarsi soprattutto sul Congresso nazionale del Partito Popolare svoltosi tra il 27 e il 29 luglio a Roma, e tornare infine a parlare del conflitto balcanico solo il 31 dello stesso mese.
In tale data infatti il quotidiano pubblicava un articolo nel quale annunciava che la decisione principale che i ministri degli esteri del “Gruppo di contatto” erano riusciti a concordare, in risposta all’ennesimo rifiuto dei serbo bosniaci del Piano di pace, era stata un inasprimento delle sanzioni contro la nuova Jugoslavia, ossia contro Serbia e Montenegro. Nell’articolo poi, nonostante fosse intitolato “Bosnia, linea dura con i serbi”, si sottolineava che il documento presentato dai ministri, senza alcuna minaccia di ritorsioni oltre alle sanzioni, era il risultato di un compromesso tra i punti di vista dei partecipanti, e che in conclusione vi si invitano nuovamente i serbo bosniaci a riesaminare la loro posizione.

Sul “Secolo d’Italia” invece il primo articolo sulle imminenti proposte ufficiali del “Gruppo di contatto” veniva pubblicato il 2 luglio, ed era incentrato sulle aggressive dichiarazioni di Radovan Karadžić. Il Presidente dell’autoproclamata Repubblica serba di Bosnia infatti annunciava che le mappe presentate fino a quel momento erano inaccettabili, e che erano fatte “sapendo che non potranno mai essere accettate” dai serbi, “con la consapevolezza che così come sono non possono che portare alla continuazione della guerra, e con l’obiettivo di addossarcene la responsabilità”.
Nello stesso articolo poi, il “Secolo” si riferiva al “Gruppo di contatto” come composto da Usa, Russia e Ue, rappresentata da Bonn, Parigi e Londra, commettendo lo stesso errore del “Popolo” nell’identificarle come rappresentanti dell’Unione europea.

Il 6 luglio sul “Secolo” veniva pubblicato un trafiletto riportante la minaccia da parte di Warren Christopher, segretario di Stato americano, di togliere l’embargo ai musulmani nel caso in cui i serbo bosniaci avessero rifiutato il Piano di pace, mentre il 7 luglio si dedicava invece un articolo alla proposta ufficiale del Piano di pace da parte del Gruppo, del quale si sottolineava come fosse identico a quello già paventato nelle settimane precedenti, con la divisione tra croati e musulmani da una parte, con il 51 per cento del territorio, e serbi dall’altra con il 49. Si evidenziava poi che le parti avevano due settimane per dare la loro approvazione, ma che non era stata rilasciata ancora nessuna dichiarazione che potesse “far apparire un netto rifiuto o un accoglimento completo del piano di pace”, smentendo così in qualche modo quanto riportato pochi giorni prima sulle accese dichiarazioni di contrarietà di Karadžić .

Sul “Secolo” si tornava poi a parlare del Piano di pace il 14 luglio con un articolo dedicato alle pressioni di Londra nei confronti di Belgrado affinché spingesse i serbo bosniaci ad accettare la proposta del “Gruppo di contatto”, articolo nel quale però si riferiva anche che sia Izetbegović che Karadžić avevano delegato l’accettazione del Piano ai parlamenti di Sarajevo e Pale.
Gli articoli sul Piano riprendevano poi il 20 luglio, quando il “Secolo” riferiva che il parlamento serbo bosniaco lo aveva accettato ma ponendo delle condizioni che sarebbero state annunciate a Ginevra, mentre musulmani e croati lo avevano accettato senza riserve. Nel testo si commentava anche che il “sì condizionato” dei serbi era un “passo avanti rispetto ai timori di un secco rigetto”.

Il 22 luglio invece il “Secolo” cambiava parzialmente opinione affermando che l’atteggiamento dei serbi era da ritenersi ambiguo, in quanto avevano accettato il piano ma con delle condizioni che equivalevano ad un rifiuto, e che Stati Uniti, Francia, Germania e Turchia lo consideravano come tale, mentre la Russia si era “schierata ancora una volta dalla parte degli aggressori serbi”.
Il quotidiano del Msi non riferiva però quali sarebbero state le conseguenze di questo rifiuto, ma asseriva invece che il presidente bosniaco Izetbegović aveva “complicato le cose” ritirando l’approvazione del suo governo al Piano, ed affermando che se i serbi non accettavano il Piano così com’era stato presentato, anche il governo di Sarajevo avrebbe posto delle condizioni.
Il “Secolo” poi il 24 luglio dedicava un articolo alla ripresa degli scontri tra le parti in lotta in Bosnia, all’interno del quale però riferiva anche che William Perry, segretario della Difesa americano erroneamente definito “segretario di Stato”, aveva offerto ai serbo bosniaci un’altra settimana di tempo per rivedere la loro posizione sul Piano di pace, posizione a suo dire “deludente” e non positiva come sostenuto da Mosca e Belgrado.
Il “Secolo” sottolineava poi di come ancora una volta la comunità internazionale stesse esitando “di fronte alla prospettiva di agire con durezza davanti all’ambiguità del leader serbo-bosniaco Radovan Karadžić e dei deputati del “parlamento” di Pale”.

Il 26 luglio invece un trafiletto riferiva che il giorno precedente alti funzionari del “Gruppo di contatto” si erano riuniti a Mosca per discutere sulla situazione dopo la risposta negativa data dai serbi al Piano, anche se si ricordava che gli stessi funzionari l’avevano definita solamente “poco chiara”.
Sotto la stessa titolazione del trafiletto era presente poi un editoriale di Gianni Moneta, il quale contestava la rapidità con la quale la Banca Europea aveva concesso un prestito alla Slovenia per modernizzare le sue infrastrutture. Secondo il giornalista infatti, vista la situazione ancora instabile della Bosnia determinata dal rifiuto “virtuale” dei serbi al Piano, non bisognava favorire alcuni paesi dell’ex Jugoslavia rispetto ad altri, e soprattutto si dovevano invece coinvolgere i paesi ad essi confinanti in queste decisioni.
Moneta inoltre nel suo confuso editoriale ricordava, come accadeva spesso sulle pagine del “Secolo d’Italia”, la presenza della comunità italiana in Istria, lasciando intendere che tale presenza avrebbe legittimato maggiormente il ruolo dell’Italia nella partecipazione a tali decisioni.

Il 31 luglio infine il “Secolo” pubblicava un articolo intitolato “Un monito a Belgrado”, dove veniva riportato che l’unico compromesso raggiunto dai partecipanti al “Gruppo di contatto” per punire il rifiuto serbo era stato quello di inasprire le sanzioni verso Serbia e Montenegro, concedendo invece altri giorni ai serbo bosniaci per l’approvazione del Piano. L’articolo del “Secolo” risultava però identico a quello pubblicato dal “Popolo” lo stesso 31 luglio, con l’unica differenza risiedente nel diverso posizionamento di alcuni periodi, mentre ad un’attenta verifica le parole e le frasi pubblicate erano esattamente le stesse.


”L’Osservatore Romano” e “Il Giornale”

Sulle pagine dell’”Osservatore Romano” del luglio 1994 le prime informazioni sull’azione diplomatica del “Gruppo di contatto” venivano pubblicate l’1, con un articolo sulle sporadiche violazioni del cessate il fuoco in atto dal 10 giugno, nel quale si riferiva che i funzionari del Gruppo avrebbero presentato ai rappresentanti delle tre parti belligeranti il Piano di pace definitivo prima dell’inizio del G7, previsto a Napoli dall’8 al 10 luglio.
Il giorno successivo, 2 di luglio, nell’articolo dell’”Osservatore” dedicato alla Bosnia si annunciava invece che il Piano di pace sarebbe stato presentato il 5 luglio a Ginevra dai ministri degli esteri dei paesi facenti parte del “Gruppo di contatto”. Nel testo si sottolineava anche che le proposte di pace sarebbero state “ultimative”, e che prevedevano incentivi e sanzioni per indurre le parti ad accettarle.
Il 3 luglio il quotidiano della Santa Sede dedicava invece l’intero articolo sulla Bosnia alle prime reazioni al Piano di pace dei rappresentati politici delle etnie bosniache. Si riferiva quindi che Karadžić contestava non tanto la perdita del 20 per cento del territorio precedentemente conquistato dai serbi, quanto la frammentazione del 49 per cento che sarebbe rimasto in mano loro, mentre il primo ministro musulmano Silajdžić aveva dichiarato che le mappe che sarebbero state presentate il 5 a Ginevra, legalizzavano di fatto il genocidio perpetrato dai serbi. Senza riportare poi le posizioni in merito al Piano dei croati, l’”Osservatore” si premurava di riferire che secondo gli osservatori, queste reazioni negative erano dettate solamente dal tentativo di “ottenere condizioni più favorevoli”.

Il 5 luglio invece, nell’articolo che annunciava l’imminente presentazione del Piano di pace a Ginevra, si riferiva che la reazione negativa di Karadžić, precedente all’ufficializzazione del Piano, avrebbe potuto cancellare in sede diplomatica il carattere ultimativo della proposta. L’”Osservatore” era tra l’altro l’unico dei quotidiani italiani a prevedere tale decisione citando fonti diplomatiche già prima che il piano venisse presentato, ed effettivamente venne di fatto presa dai diplomatici occidentali nelle settimane successive, anche se senza mai essere dichiarata ufficialmente.
L’articolo sulla Bosnia pubblicato dall’”Osservatore” il 6 luglio però, essendo stato scritto la mattina precedente, non faceva riferimento della presentazione ufficiale del Piano di pace, ma annunciava bensì che sarebbe stato ufficializzato nel pomeriggio a Ginevra.
Il giorno seguente invece il quotidiano della Santa Sede pubblicava un lungo articolo sull’ufficializzazione del Piano di pace e sulle mappe di spartizione della Bosnia, sottolineando che i contendenti avevano due settimane di tempo per accettare la proposta, o in caso contrario subire misure punitive, tra le quali non venivano più menzionati i bombardamenti aerei della Nato. L’unica inesattezza dell’”Osservatore” stava nello stabilire la scadenza delle due settimane per l’accettazione del piano il 20 luglio, quando invece sarebbe stata il giorno precedente.
Nello stesso articolo si riferiva anche che, sempre a Ginevra, era stata firmata un’intesa tra Unione europea e rappresentanti politici di musulmani e croati, per porre la città di Mostar per due anni sotto l’amministrazione dell’Ue.
Anche l’8 luglio l’”Osservatore” dedicava un articolo al Piano di pace del “Gruppo di contatto” e alle reazioni dei rappresentanti politici delle etnie bosniache, ma il testo non aggiungeva nessuna nuova informazione rispetto a quanto già riportato il giorno precedente.

Il 9 luglio l’”Osservatore” riferiva invece con un nuovo articolo di come né i musulmani né i serbo bosniaci fossero entusiasti del Piano, ma che entrambi avrebbero finito con l’accettarlo per “non passare dalla parte del torto e non essere tacciati di guerrafondai”. Ancora una volta però, il quotidiano della Santa Sede tralasciava di riportare il parere dei croati di Bosnia in merito al Piano, forse perché ormai la loro posizione veniva assimilata direttamente a quella dei musulmani, con i quali avrebbero dovuto formare una delle due nuove entità comprese nella futura Repubblica bosniaca.
Nei giorni successivi poi il quotidiano della Santa Sede pubblicava sempre un articolo relativo alla Bosnia, concentrandosi però sulla fine del cessate il fuoco, che l’inviato dell’Onu Akashi non era riuscito a prolungare, e sugli scontri in atto a Bihać tra separatisti musulmani e l’esercito regolare di Sarajevo. All’interno degli articoli veniva poi ovviamente ricordato che l’ultimatum del “Gruppo di contatto” sarebbe scaduto il 19 di luglio, riferendo quindi in questa occasione la giusta data.
Il 13 luglio invece l’”Osservatore” dedicava un intero articolo al lavorio diplomatico dei paesi occidentali per convincere i belligeranti bosniaci ad accettare il Piano di pace, e riferiva anche che lo stesso Consiglio della Nato aveva sollecitato i contendenti, preparando inoltre degli interventi da attuare sia in caso di accettazione che di rifiuto della proposta. Anche il giorno successivo veniva riferito dell’intensa attività diplomatica di francesi e britannici, in quanto si prevedeva che un rifiuto del Piano avrebbe portato a una sostanziale ripresa del conflitto, anche se il giorno precedente Akashi era riuscito ad ottenere una proroga della tregua scaduta il 10 luglio.

Il 15 luglio poi il quotidiano della Santa Sede annunciava che sia Karadžić che Izetbegović avevano delegato l’accettazione del Piano di pace ai rispettivi Parlamenti, che si sarebbero riuniti lunedì 18 luglio. Però mentre il leader serbo aveva continuato a criticare la proposta del “Gruppo di contatto”, quello musulmano aveva dichiarato che si trattava di una pessima proposta, ma che avrebbe invitato il Parlamento a votarla comunque perché era l’opzione migliore a disposizione in quel momento.
Domenica 17 luglio poi l’”Osservatore” riferiva che i “capi di Stato e di Governo dell’Unione Europea” avevano lanciato “un pressante appello alle parti belligeranti in Bosnia ed Erzegovina […] affinché accettino il piano di pace e di spartizione territoriale”.
Il 19 luglio invece, data della scadenza dell’ultimatum del “Gruppo di contatto”, l’”Osservatore” pubblicava un articolo evidentemente scritto il 17, in quanto vi si affermava che “a quarantotto ore dallo scadere dell’ultimatum” i Parlamenti di Sarajevo e Pale si sarebbero riuniti per pronunciarsi sul Piano di pace, mentre croati, bosniaci e turchi avevano lanciato un appello ai serbi per firmare l’accordo e la Nato si dichiarava pronta a sostituire le truppe dell’Onu che sarebbero state ritirare in caso di rifiuto del Piano.
Anche il 20 luglio l’articolo sulla Bosnia, come di consueto scritto solo la mattina del 19, non riportava aggiornamenti sulla conclusione della riunione del Parlamento di Pale, ma solo la notizia che era ripresa in mattinata la discussione sul Piano di pace, e che l’ultimatum sarebbe scaduto “alla mezzanotte di oggi”. Si riferiva invece che il Parlamento di Sarajevo lo aveva accettato, e si tornava a dare voce ai croati bosniaci riportando anche il loro voto favorevole, espresso sabato a Mostar dai rappresentanti politici.

Il 21 luglio invece l’“Osservatore” finalmente riferiva che il Parlamento di Pale non aveva reso pubbliche le proprie decisioni, e che sarebbero state rivelate solo al “Gruppo di contatto” a Ginevra, provocando con questa mossa la reazione degli Stati Uniti, che minacciavano conseguenze in caso di rifiuto o risposte equivoche.
Il 22 però nell’articolo sulla Bosnia si riferiva che i serbi accettavano il Piano con riserva, ma non veniva specificato quali fossero le loro condizioni, riportando solo che c’era “forte preoccupazione a Ginevra per l’ambigua risposta fornita dai serbi bosniaci”, con Karadzic che aveva chiesto ulteriori dilazioni dichiarando che il Piano fosse una buona base per proseguire i negoziati.
L’”Osservatore Romano” pubblicava quindi le condizioni poste dai serbi per l’accettazione del Piano di pace solo il 23 luglio, riportando anche le varie reazioni dei paesi facenti parte del “Gruppo di contatto”. In particolare si riferiva che “Con l’unica eccezione della Russia, tutte le grandi potenze hanno ritenuto che la richiesta dei serbi di riaprire i negoziati equivalga ad un rifiuto del piano di pace, anche se sussistono ancora differenze di valutazione sulle misure da applicare”, differenze riferite poi nel dettaglio nella seconda parte del testo.

Il giorno seguente l’articolo sulla Bosnia veniva dedicato nuovamente alle novità sul Piano di pace, e vi si riferiva che i segretari di Stato e alla Difesa americani, Christopher e Perry, avevano preferito non “precipitare le eventuali ritorsioni militari” nei confronti dei serbo bosniaci, concedendo loro altri giorni per accettare il Piano, “stemperando così l’intransigenza” precedentemente “mostrata dalle grandi potenze”, e sperando nell’esito positivo delle pressioni in tal senso dei diplomatici russi.
Il 26 luglio invece l’”Osservatore” riferiva le stesse notizie del giorno precedente sulla dilazione concessa dalle grandi potenze ai serbi di Bosnia, e attribuiva la ripresa dei combattimenti alla “sostanziale indecisione diplomatica seguita all’ambigua risposta dei serbi bosniaci al piano di pace”. Nei giorni seguenti poi il quotidiano della Santa Sede, occupandosi della Bosnia riferiva principalmente della ripresa dei combattimenti in diverse zone del paese e dei reiterati attacchi serbi contro le forze dell’Onu, mentre a riguardo del Piano di pace riportava solamente del perdurare dell’incertezza diplomatica.

Il 30 luglio invece l’”Osservatore Romano” riferiva che il Parlamento di Pale aveva ribadito di attestarsi sulle posizioni già espresse il 19 luglio, quando aveva posto precise condizioni per accettare il Piano di pace che veniva ritenuto solo come una base negoziale su cui continuare le trattative, e che quindi i ministri degli Esteri dei paesi facenti parte del “Gruppo di contatto” avrebbero dovuto decidere come reagire.
Il 31 però non venivano riportare le decisioni del Gruppo riunitosi il 30 a Ginevra, e nel testo si riferiva che la sostanziale ripresa dell’assedio di Sarajevo da parte dei serbi era da interpretarsi come “un’ulteriore dimostrazione dell’intenzione dei serbi di non cedere né a promessi di aiuti né a minacce”.
Il 2 agosto infine l’”Osservatore” annunciava che i ministri partecipanti alla riunione del “Gruppo di contatto” avevano deciso di chiedere all’Onu di inasprire le sanzioni economiche contro la nuova Federazione Jugoslava, nel tentativo di spingere Belgrado ad esercitare maggiori pressioni sui serbo bosniaci affinché accettassero il Piano di pace. L’autore dell’articolo non commentava la sostanziale inazione del Gruppo nei confronti dei serbi, ma riferiva che Izetbegović aveva criticato “la pericolosa mancanza di determinazione della comunità internazionale” nel punire i serbi.

Il “Giornale” diretto da Vittorio Feltri iniziava a presentare la nuova proposta di pace per la Bosnia il 4 luglio con un articolo di Alberto Pasolini Zanelli. Nel testo non si nominava però il cosiddetto “Gruppo di contatto” come autore del Piano, ma bensì i “governi dei paesi che più contano: gli Stati Uniti, la Russia, la Francia e la Gran Bretagna”, dimenticandosi quindi della presenza della Germania. Inoltre veniva erroneamente riportato che il Piano sarebbe stato presentato formalmente ai belligeranti il 5 a Ginevra, e che questi avrebbero avuto tre giorni di tempo per fornire una risposta, che sarebbe stata valuta al G7 di Napoli previsto per l’8 di luglio. Il resto dell’articolo presentava poi i dettagli della proposta di pace.
Il “Giornale” però non pubblicava poi nei giorni seguenti aggiornamenti rilevanti sulla discussione del Piano di pace, se non con un trafiletto del 7 luglio nel quale, citando il settimanale belgradese “Telegraf”, si riferiva di come Milošević stesse valutando la sostituzione di Karadžić con il suo vice Nikola Koljević, se il rappresentante dei serbi di Bosnia non avesse accettato la proposta avanzata a Ginevra.

Il quotidiano della famiglia Berlusconi ritornava poi a parlare del Piano di pace l’11 luglio, nominando in questa occasione il “Gruppo di contatto”, ma evitando nuovamente di includervi la Germania, e sostituendola anzi nella composizione del Gruppo con l’Unione Europea. Nel testo il giornalista Andrea Nativi definiva poi il progetto “sicuramente punitivo nei confronti dei serbo bosniaci”, che avrebbero dovuto rinunciare a metà delle conquiste territoriali ottenute nel corso della guerra, mentre il Gruppo aveva a suo dire “favorito decisamente i croato-musulmani”, concedendo loro l’accesso al mare ed il controllo di zone strategiche.
Nativi poi criticava le minacce del “Gruppo di contatto” di ritirare i caschi blu dell’Onu e di annullare l’embargo nei confronti dei musulmani in caso di rifiuto dei serbi bosniaci, in quanto riteneva “curioso pensare di fermare una guerra con forniture di armi” e dichiarava infine che al “mantenimento di una Bosnia federale […] nessuno crede realmente”.
Il “Giornale” poi riprendeva a riferire sugli sviluppi del Piano di pace solo il 19 luglio con un altro trafiletto, nel quale venivano riportate le dichiarazioni di Radovan Karadžić trasmesse dalla “televisione serba”, e dove finalmente si collocava nel “Gruppo di contatto” anche la Germania. Il leader dei serbo bosniaci all’apertura della riunione del Parlamento di Pale aveva quindi dichiarato che l’accettazione del Piano sarebbe stata l’opzione meno onorevole, e che in caso di rifiuto i serbi dovevano essere pronti a combattere.

Il 21 luglio invece sul “Giornale” veniva pubblicato un articolo interamente dedicato ai responsi dei Parlamenti bosniaci sul Piano di pace, nel quale si riferiva che al “sì incondizionato” di croati e musulmani aveva invece fatto seguito una risposta equivoca del Parlamento dell’autoproclamata Repubblica serba di Bosnia, che aveva dato mandato a Karadžić di proseguire i negoziati.
Nel testo non si faceva però riferimento alle condizioni poste dai serbo bosniaci per accettare il Piano, mentre si annunciava che i paesi del “Gruppo di contatto” si sarebbero riuniti il 30 luglio a Ginevra “per decidere la condotta da tenere di fronte all’atteggiamento dei serbi”

Il quotidiano diretto da Feltri poi ritornava a parlare della situazione diplomatica in Bosnia il 24 luglio, e lo faceva brevemente all’interno di un articolo dedicato all’insediamento di un sindaco tedesco nella città di Mostar, che per due anni sarebbe stata amministrata dall’Unione europea, dove si riferiva anche che il ministro degli Esteri tedesco aveva avvertito i serbi di Bosnia che, se entro la fine del mese non avessero manifestato disponibilità verso il Piano di pace, il loro “no” sarebbe stato interpretato come definitivo e avrebbe implicato delle conseguenze.
Ma soprattutto il “Giornale” si occupava del Piano del “Gruppo di contatto” con un nuovo editoriale di Andrea Nativi. Il giornalista riferiva finalmente delle condizioni poste dai serbi per l’accettazione del Piano di pace, senza specificarle ma sottolineando che richiedevano uno “stravolgimento del progetto […] presentato come non negoziabile e ultimativo”, mentre affermava, vista la reazione dei serbi, di come fosse “comprensibile che anche i croato-musulmani” avessero “ritirato il sì incondizionato” precedentemente espresso.
Nativi sosteneva però che per la comunità internazionale fosse “meglio perdere la faccia (come del resto è già avvenuto più volte) piuttosto che dare il via ad un inasprimento della crisi”, conseguenza a suo dire inevitabile se l’Onu avesse abolito l’embargo ai musulmani ed approvato nuove sanzioni sui serbi. Nativi ammoniva poi che tale contesto, oltre a rendere insostenibile la situazione per i caschi blu presenti sul territorio, avrebbe potuto “provocare un intervento, indiretto o addirittura diretto, della Serbia”, dimenticandosi quindi di come fosse già stato denunciato l’intervento di Belgrado nel conflitto, sia economico che militare.
Il giornalista concludeva poi il suo articolo affermando correttamente che stavano emergendo delle divisioni all’interno del “Gruppo di contatto”, e che le minacce a vuoto avevano semplicemente contribuito a compiere un “nuovo passo in quella progressiva escalation che si voleva scongiurare“.

Il 30 sul “Giornale” era nuovamente Nativi a ritornare sull’argomento, con un editoriale nel quale annunciava che nella medesima giornata era prevista la riunione del “Gruppo di contatto” che avrebbe dovuto prendere atto del rifiuto serbo al Piano di pace. Ma soprattutto nel suo scritto Nativi sosteneva la tesi secondo la quale, dato che gli schieramenti si stavano preparando a riprendere ufficialmente le ostilità, a croati, musulmani e serbi avrebbe fatto comodo il ritiro dei caschi blu dalla Bosnia, perché in questo modo avrebbero potuto “decidere in battaglia l’esito del confronto”, dato che erano tutti convinti di poter prevalere sull’avversario.

Il 31 luglio invece il quotidiano di Feltri presentava due articoli sui risultati della conferenza di Ginevra del giorno precedente.
Nel primo scritto si sottolineava che l’inasprimento delle sanzioni verso la nuova Jugoslavia e l’ennesimo appello ai serbo bosniaci perché accettassero il Piano di pace, rappresentavano solo un tentativo delle Grandi potenze di fare pressioni “senza calcare su minacce o fissare ultimatum”, ma soprattutto si trattava di “un evidente compromesso per dimostrare un fronte unito e superare la divergenze”.
Il secondo scritto era invece un editoriale di Pasolini Zanelli, il quale sosteneva che il Piano presentato dal “Gruppo di contatto” non era certo la soluzione migliore per nessuno dei due schieramenti, ma che sicuramente tutte le altre soluzioni sarebbero state peggiori, e che quindi le due parti avrebbero dovuto constatarlo con “un minimo di realismo e di buona volontà”. Questo anche perché, secondo Zanelli, la divisione della terra bosniaca era l’unica soluzione possibile, non essendo “uno Stato bosniaco […] mai esistito” a suo dire.
Dato che però i serbi di Bosnia sembravano preferire “una guerriglia strisciante” piuttosto che pagare “il prezzo dell’accordo”, Zanelli sosteneva che la comunità internazionale poteva solo “intraprendere qualche passo di più sulla via dell’escalation”, anche se il giornalista riteneva che inasprire le sanzioni alla Serbia non sarebbe servito a far mutare idea ai serbo bosniaci, i quali ormai non davano più ascolto a Belgrado.


”La Repubblica”

La “Repubblica” iniziava ad informare con un trafiletto del primo luglio che la presentazione ufficiale del Piano di pace sarebbe avvenuta a Ginevra il 5 dello stesso mese.
Nel testo il “Gruppo di contatto” veniva correttamente presentato come composto da Usa, Russia, Francia, Gran Bretagna e Germania, e vi si riferiva che la proposta avrebbe avuto carattere ultimativo, ma anche che un’eventuale “corte d’appello” sarebbe potuto essere il G7 di Napoli.

Il 5 luglio invece “Repubblica” riferiva nei dettagli il nuovo Piano di pace con un articolo di Guido Rampoldi, dove si dava per certa la ripresa di aspri combattimenti nel caso in cui il tentativo diplomatico fosse fallito. Nel testo, oltre a riportare le riserve espresse da Karadžić sulla proposta, veniva presentata anche un’intervista esclusiva al Primo ministro bosniaco Silajdžić, il quale iniziava subito ad accusare “una parte della comunità internazionale” di essere pronta con questo tipo di proposta “a dimenticare ogni crimine, a legalizzare l’aggressione, a premiare il massacro con la spartizione, nell’idea che una Grande Serbia sia un fattore di stabilità nei Balcani.”.
Per Silajdžić infatti il Piano di pace non avrebbe avuto senso senza garanzie che non diventasse “il solito pezzo di carta”, ma soprattutto ai bosniaci premeva che il confine con la Serbia fosse posto sotto il controllo internazionale e che l’Occidente uscisse da quella finta neutralità chiamata “non interferenza”.
Secondo il premier bosniaco infatti l’Europa e la comunità internazionale avevano interferito pesantemente nel conflitto, applicando un embargo sulle armi che era risultato punitivo solo verso gli aggrediti. Silajdžić poi affermava di voler evitare discussioni sulle percentuali di territorio previste dal Piano, per le quali era disposto a negoziare, ma dichiarava fermamente che non avrebbero invece mai accettato che i nazionalisti serbi amministrassero le città dove avevano massacrato la popolazione, come Prijedor e Zvornik, perché sarebbe equivalso a suo parere a “legittimare lo sterminio e riconoscere agli sterminatori il potere di governare quelle città”.

Il giorno seguente, 6 di luglio, sulle pagine di “Repubblica” si accennava al Piano di pace solo per riferire le parole del ministro degli Esteri italiano Martino, il quale protestava per l’esclusione dell’Italia dal “Gruppo di contatto” e proponeva che ad occuparsi della pace in Bosnia fossero invece le nazioni presenti al G7 di Napoli dall’8 luglio assieme alla Russia, per la prima volta associata alle discussioni politiche del G7.
Questa richiesta veniva riportata in un trafiletto e ripetuta anche all’interno di un articolo dedicato alla preparazione del Presidente del Consiglio Silvio Berlusconi in vista dell’incontro tra le grandi potenze sul suolo italiano.
Nei giorni poi in cui si svolse il G7 “Repubblica” accennò sempre, ma all’interno degli articoli relativi al summit di Napoli, alla proposta italiana di risolvere la guerra in Bosnia non solo con i dettami del “Gruppo di contatto”, ma anche con la partecipazione di Italia, Giappone e Canada.
In particolare nell’articolo del 10 luglio si ricordava che il ministro degli Esteri italiano Martino sosteneva questa posizione perché, a suo parere, le pressioni effettuate dal G7 assieme alla Russia avrebbero avuto più influenza sui serbi rispetto a quelle del Gruppo, ed avrebbero anche riportato in primo piano il ruolo internazionale di Mosca, favorendone quindi la stabilità interna.

L’11 luglio, il giorno successivo alla chiusura del G7 di Napoli, il quotidiano diretto da Scalfari ritornava sugli argomenti di politica estera affrontati nel summit dando maggior risalto alla guerra in Bosnia.
Secondo “Repubblica” infatti era “questo l’argomento su cui il G7-più-Russia” aveva “fatto un vero e proprio salto di qualità”, facendo propria la proposta del “Gruppo di contatto” ed emettendo una dichiarazione nella quale si prometteva, in caso di rifiuto del Piano di una delle parti belligeranti, che i caschi blu sarebbero stati ritirati e le sanzioni inasprite.
Il 14 luglio il quotidiano romano pubblicava poi un articolo intitolato “Da Sarajevo un primo sì al nuovo piano per la Bosnia”, titolo dal quale sembrava potersi evincere che una delle parti coinvolte nel conflitto avesse accettato il Piano. In realtà però nel testo veniva specificato che le decisioni di musulmani e serbi sarebbero state prese ufficialmente dai Parlamenti di Sarajevo e Pale solo lunedì 18, ma che il Presidente bosniaco Izetbegović aveva proposto al “suo” Parlamento di approvare il Piano, seppur controvoglia.

“Repubblica” ritornava poi a parlare del Piano di pace con un trafiletto del 18 luglio, dove si annunciava che, mentre mancavano solo 24 ore alla scadenza dell’ultimatum, i serbi sembravano pronti a rifiutare il Piano.
Il 19 luglio invece veniva pubblicato un articolo con la titolazione nuovamente fuorviante simile a quella dell’articolo del 14. Il titolo difatti recitava “La Bosnia ha accettato il piano di pace”, ma questa affermazione veniva subito smentita nel testo, dove si riferiva invece che il Parlamento di Sarajevo aveva accettato il Piano, mentre quello di Pale, ancora riunito nella tarda serata del 18, “lasciava prevedere un netto rifiuto”. Si ricordava infatti che il leader serbo bosniaco Radovan Karadžić “pur senza dare formalmente indicazioni di voto indicava l'accettazione del piano come l'alternativa “meno onorevole”.”.
Il giorno successivo “Repubblica” dedicava poi un altro articolo al presunto rifiuto dei serbo bosniaci di accettare il Piano di pace. Nel testo infatti si riferiva che la risposta ufficiale del Parlamento di Pale non era stata resa pubblica, e che sarebbe stata annunciata solo il giorno successivo a Ginevra.
L’articolo però riportava anche le anticipazioni dell’agenzia di stampa serbo bosniaca “Srna”, la quale sosteneva che i serbi avrebbero posto delle condizioni sugli aspetti territoriali e costituzionali per la loro accettazione dei Piano. A questo punto quindi “Repubblica” affermava che le condizioni non sarebbero state verosimilmente accettate dal “Gruppo di contatto”, che aveva precedentemente “chiesto alle parti in guerra di sottoscrivere il piano senza condizioni”.

Il 21 luglio poi un trafiletto corredato da due cartine della Bosnia riassumeva gli ultimi sviluppi del Piano di pace, ricordando che il responso dei serbi sarebbe stato reso noto solo nella giornata stessa del 21.
Il giorno seguente quindi “Repubblica” pubblicava un intero articolo dedicato alla risposta data dai serbi al Gruppo di contatto, risposta che veniva definita dal quotidiano romano semplicemente come negativa. La prima frase dell’articolo infatti evidenziava subito di come “il “no” detto […] dai serbi di Bosnia all’ultimo piano di pace” rischiava “di diventare il requiem per la Bosnia”. Dopo aver riportato poi tutte le reazioni dei paesi facenti parte del “Gruppo di contatto”, sottolineando che a parte la Russia tutti avevano condannato il verdetto del Parlamento di Pale, l’articolo riferiva che i rappresentanti delle 5 potenze si sarebbero riuniti il 30 luglio a Ginevra per decidere un programma di azioni contro i serbi, che l’autore sosteneva lasciasse “prevedere azioni militari e in particolare blitz aerei molto più duri che in passato o il disimpegno totale della comunità internazionale.“.

Il 23 luglio invece il quotidiano diretto da Scalfari pubblicava un articolo di Mario Tedeschini Lalli a riguardo dell’indecisione della comunità internazionale nel reagire alla risposta dei serbi. Nel testo si sottolineava di come fosse bastata una dichiarazione ambigua per rompere “la presunta unità delle grandi potenze sulla Bosnia”, in particolare con l’opposizione della Russia al considerare la risposta serba come negativa, e ad agire quindi di conseguenza.
Tedeschini Lalli ricordava inoltre che le crisi internazionali in corso in Ruanda e ad Haiti spingevano la Casa Bianca a tentare di evitare a tutti i costi un intervento anche in ex Jugoslavia, e a tale proposito il giornalista sottolineava che i rappresentanti dei paesi del “Gruppo di contatto” avevano sostanzialmente prolungato il tempo a disposizione dei serbi per cambiare la loro risposta al Piano di pace, affermando che le decisioni su come agire sarebbero state prese il 30 luglio a Ginevra. Allo stesso tempo però Tedeschini Lalli riferiva che non vi era unità di intenti neanche sulle possibili reazioni non militari da mettere in atto, ossia allargare le sanzioni economiche, rimuovere l’embargo sulle armi ai musulmani o ritirare le forze Onu dell’Unprofor.

Anche il 27 luglio un articolo di Tedeschini Lalli, partendo dalle dichiarazioni del Segretario generale dell’Onu Boutros Ghali che affermava di essere pronto a ritirare l’Unprofor dalla Bosnia, riferiva che la riunione dei ministri degli esteri dei paesi del “Gruppo di contatto” prevista per il 30 luglio sarebbe diventata una “drammatica partita diplomatica”. Il giornalista sosteneva tale tesi in quanto a suo dire il “Gruppo di contatto” minacciava un’azione militare contro i serbi che l’Onu non poteva e non voleva effettuare, e che quindi sarebbe toccata alle forze Nato, ma allo stesso tempo la Russia, facente parte del Gruppo, sosteneva invece che solo l’Onu poteva agire in Bosnia.
Il 29 luglio poi un nuovo articolo riferiva che, alla vigilia della riunione del Gruppo prevista il 30 a Ginevra, i serbi avevano già avanzato nuovi emendamenti al Piano di pace, lasciando quindi intendere che la loro risposta su di esso non sarebbe mutata. Mentre si ricordavano anche le continue frizioni tra i membri del “Gruppo di contatto”, il testo riportava poi la ripresa degli scontri armati in diversi luoghi della Bosnia, nonostante il 10 luglio il cessate il fuoco fosse stato prolungato di un altro mese.

Il 30 luglio “Repubblica” pubblicava invece un trafiletto sulle dichiarazioni effettuate dai ministri degli Esteri e della Difesa russi, delusi dall’ostinato rifiuto dei serbo bosniaci di accettare il Piano di pace, mentre il 31 luglio, oltre ad un articolo sull’inattività della Farnesina nel quale si denunciava anche lo scontato fallimento del negoziato sulla Bosnia, il quotidiano romano proponeva un articolo intitolato “I grandi contro i serbi: "pace o sanzioni dure"". Nel testo si riferiva che il “Gruppo di contatto” aveva deciso di inasprire le sanzioni contro la Federazione jugoslava e i serbi di Bosnia “colpevoli di aver bocciato l’ultimo piano di pace”, e che gli sarebbe stato concesso altro tempo per cambiare la loro risposta.
L’articolo proseguiva poi spiegando che la decisione del Gruppo rappresentava una “mediazione” fra la posizione più intransigente degli Stati Uniti e quella più accomodante della Russia, che in sostanza aveva portato a protrarre l’attesa nella speranza che i serbo bosniaci accettassero il Piano. “Repubblica” definiva quindi questo comportamento del Gruppo come un “ammorbidimento”, ricordando che in principio il Piano era stato presentato come soluzione “da prendere o lasciare”.


”Corriere della Sera”

Sulle pagine del “Corriere della Sera” si riferiva per la prima volta il 2 luglio che la proposta ultimativa sulla Bosnia dei “Grandi” della diplomazia sarebbe stata presentata ai contendenti al G7 di Napoli, senza nominare quindi il “Gruppo di contatto” e la riunione del 5 luglio nella quale sarebbe stato realmente ufficializzato il Piano. La notizia era tra l’altro presentata all’interno di un breve articolo dedicato al negoziato proposto da Milošević a Tudjman per risolvere la questione della Krajina, regione croata occupata dai serbi dall’inizio del conflitto.

Il 6 luglio invece il “Corriere” presentava sotto il titolo “Bosnia, ultimatum per la pace” un lungo articolo di Eros Bicic, il quale sosteneva che mentre la “diplomazia internazionale insegue ostinatamente un accordo di pace”, musulmani e croati avevano già tracciato un piano e preparato l’offensiva contro i serbi. Bicic sosteneva ciò perché a suo dire il fatto che la tregua tra musulmani e croati stesse incredibilmente reggendo, fosse dovuto unicamente alla comune volontà di attaccare i serbi presso il “corridoio di Brćko”, una striscia di territorio della Bosnia centrale larga solo 5 chilometri ma fondamentale per i serbi, in quanto collegava i territori da loro controllati in Bosnia e Croazia con la Serbia.
Sotto lo stesso titolo il Corriere pubblicava anche un trafiletto, corredato da una cartina, relativo alla presentazione il giorno precedente del Piano di pace ufficiale stilato dal “Gruppo di contatto”, nel quale venivano riportate correttamente le specifiche divisioni previste dal Piano, ma dove si riferiva invece erroneamente che la comunità internazionale aveva posto ai belligeranti come data ultima per rispondere il 20 di luglio. Nella stessa pagina inoltre veniva pubblicato un articolo di Ettore Petta relativo alle dichiarazioni del ministro degli Esteri italiano Martino, il quale affermava che avrebbe richiesto ufficialmente di “affidare il dossier Bosnia al G7, coinvolgendo anche la Russia”, in quanto non era accettabile che l’Italia fosse stata esclusa dalla proposta formulata dal “Gruppo di contatto”, essendo essa un membro della Nato territorialmente vicino e logisticamente impegnato nelle missioni internazionali.

Il giorno seguente, giovedì 7 luglio, il quotidiano di via Solferino pubblicava invece un articolo a riguardo delle reazioni dei politici bosniaci al Piano di pace a loro appena presentato.
Si riferiva dunque che Karadžić riteneva inaccettabili le mappe di spartizione della Bosnia e non temeva l’inasprirsi delle sanzioni, mentre il primo ministro bosniaco Silajdžić si dichiarava non del tutto pessimista nonostante i punti deboli contenuti nel Piano. Le dichiarazioni però maggiormente evidenziate nell’articolo, e riportate anche nel sottotitolo, erano quelle del presidente serbo Slobodan Milošević, il quale, secondo il settimanale di Belgrado “Telegraf” citato come fonte dal “Corriere”, come già fatto dal “Giornale” nel dare la stessa notizia, stava pensando di sostituire Karadžić alla guida dei serbi di Bosnia, se questi non avesse accettato il Piano di pace. A sostegno di tale ipotesi il “Corriere” ricordava inoltre di come alla fine del 1991 Milošević, seppur formalmente senza controllo sui leader serbi di altri paesi, avesse di fatto destituito il Presidente dell’autoproclamata Repubblica serba di Krajina Milan Babić, reo di aver rifiutato di accettare il Piano di pace Vance-Owen.
L’8 luglio invece veniva presentato solo un breve trafiletto nel quale si informava che i musulmani sembravano orientati ad accettare il Piano di pace, a differenza dei serbi.

Il “Corriere della Sera” poi, dopo essersi concentrato per alcuni giorni sul G7 di Napoli, riprese nuovamente ad occuparsi del Piano di pace con un articolo del 15 luglio, dedicato in particolare al “braccio di ferro in corso” tra Milošević e Karadžić. Secondo il quotidiano di via Solferino infatti, mentre il leader serbo bosniaco aveva rimesso la decisione sul Piano al Parlamento di Pale senza nascondere la sua contrarietà, il presidente serbo invece, seppur senza essersi pronunciato esplicitamente sul piano, cercava una soluzione al conflitto per ristabilire il paese schiacciato dalle sanzioni economiche. Su questo punto si stava quindi consumando la frattura tra i due leader serbi, e secondo il “Corriere” tale frattura emergeva chiaramente dal comportamento della televisione di Belgrado, che aveva iniziato in quei giorni a sottolineare i vantaggi che “l’eventuale accettazione del piano europeo” avrebbe portato “alla nazione”.

Il 18 luglio invece il “Corriere” pubblicava un articolo contraddittorio sulla posizione dei serbi nei confronti del Piano di pace del “Gruppo di contatto”. Difatti, mentre il titolo recitava “I serbi di Bosnia: no alla pace” e le prime frasi dell’articolo riferivano che i serbi erano “decisi a respingere il piano di pace” e che Karadžić aveva preannunciato il voto contrario del Parlamento di Pale, nelle righe successive emergeva subito una contraddizione con quanto appena riferito.
Il “Corriere” riportava infatti le testuali parole pronunciate da Karadžić all’agenzia di Belgrado, che recitavano “la gente si oppone a questo (il Piano nda) e probabilmente dirà di no”, dimostrando quindi che le generiche dichiarazioni sulla contrarietà dei serbi al Piano riferite dal “Corriere” erano in realtà ancora solo delle deduzioni. Tali deduzioni, che si sarebbero poi rivelate veritiere, erano però premature perché, come veniva ricordato anche nel proseguimento dello stesso articolo, l’ultima parola sarebbe spettata comunque ai deputati di Pale.
Il giorno successivo 19 di luglio il quotidiano milanese doveva infatti rettificare le proprie affermazioni, senza farlo esplicitamente ma riportando che il Parlamento di Pale aveva espresso “un sì condizionato al piano già approvato da musulmani e croati”, e che nella giornata stessa del 19 il “Gruppo di contatto” avrebbe esaminato la loro risposta e rese note le loro condizioni. Mentre però si attendeva un responso, nel testo si ricordava che “nel caso di un no, anche mascherato, il piano […] prevede una graduale revoca dell’embargo sulle armi ai musulmani e nuove sanzioni economiche contro Pale e Belgrado.”.

Il 22 di luglio invece un articolo di Ennio Caretto riferiva che Stati Uniti e Onu avevano risposto “con un aspro monito al virtuale “no” dei serbi di Bosnia”, ma anche che il fronte alleato non era così unito come poteva apparire dalle dichiarazioni, dato che il ministro degli Esteri russo Kozyrev vedeva comunque nella dichiarazione serba degli elementi positivi. Caretto sosteneva quindi che con i serbi fosse in gioco l’intera “credibilità euroamericana” e che Karadžić avesse “di fatto schiaffeggiato l’Occidente”, che ora poteva solo “adottare ritorsioni […] per salvare la faccia”. Il giornalista poi ricordava che le richieste serbe di negoziare la futura Costituzione della Bosnia, la spartizione di Sarajevo con i musulmani, la possibilità di avere un accesso al mare e di cessare subito le sanzioni nei loro confronti, avevano spinto i musulmani a ritirare il loro sì incondizionato al Piano di pace.
Mentre però nell’articolo di Caretto non si faceva più riferimento, tra le eventuali ritorsioni attuabili contro i serbi, alla possibilità di effettuare azioni militari, il giorno seguente il “Corriere” pubblicava proprio un articolo incentrato sui nuovi strumenti di pressione che Onu e Nato stavano vagliando “per rafforzare il progetto di spartizione messo a punto dal Gruppo di contatto”, tra i quali vi era anche la “possibilità di raid aerei punitivi sulle cosiddette zone protette”. L’articolo proseguiva poi con le dichiarazioni del segretario alla Difesa statunitense Perry, il quale comunque auspicava ancora che i serbi potessero riconsiderare la loro posizione prima dell’incontro del 30 luglio a Ginevra tra i ministri degli Esteri del “Gruppo di contatto”.

Il 28 luglio il “Corriere” ricordava solo che l’incontro del 30 a Ginevra avrebbe potuto generare dei dissensi tra la Russia e le altre nazioni sulle sanzioni da comminare ai serbi, e lo faceva in un articolo dove si sottolineava che proprio a due giorni da tale data i serbo bosniaci avevano nuovamente cinto d’assedio Sarajevo, ma che soprattutto avevano anche attaccato un convoglio dell’Unprofor diretto a Goražde, uccidendo un casco blu britannico ma senza subire conseguenze, dato che gli aerei della Nato mandati ad intimorire i serbi avevano solo sorvolato le loro postazioni, senza evitare quindi che questi attaccassero anche i soldati francesi dell’Onu giunti in soccorso del convoglio.
Il 30 luglio invece il “Corriere” pubblicava un breve articolo nel quale, oltre a ricordare l’incontro previsto per il medesimo giorno dei ministri degli Esteri di Stati Uniti, Russia, Francia, Gran Bretagna e Germania, riferiva che il giorno precedente il segretario di Stato americano Christopher aveva chiesto una “rappresaglia immediata” contro i serbi, se questi avessero proseguito nel loro rifiuto di accettare il Piano di pace. Secondo il quotidiano di via Solferino dunque gli americani, spinti dalle “provocazioni serbe degli ultimi giorni”, a Ginevra avrebbero richiesto il “rafforzamento delle sanzioni economiche e dell’ombrello Nato per le zone franche”, ed in seguito “la revoca dell’embargo sulle forniture di armi ai musulmani”.

Il 31 luglio poi veniva presentato dal “Corriere” un resoconto di Ennio Caretto sulla riunione di Ginevra del “Gruppo di contatto”. Mentre però il titolo dell’articolo suonava critico sugli esiti dell’incontro “Più sanzioni, nuove minacce: i Grandi condannano i serbi a parole”, il testo invece risultava più entusiasta delle decisioni prese dalle Grandi potenze a Ginevra, sottolineando infatti che, pur in assenza di un ultimatum, si era deciso di rafforzare le sanzioni contro i serbo bosniaci e la Serbia, e di estendere l’ombrello della Nato su altre città oltre a Sarajevo e Goražde.
In particolare però Caretto affermava di come ci fosse stato “l’abbandono dei serbi da parte della Russia”, in quanto il “Gruppo di contatto” aveva votato come possibilità di riserva la revoca dell’embargo sulle armi ai musulmani, se i serbi non avessero accettato il Piano nei giorni seguenti, prima cioè che il Gruppo presentasse “una bozza di risoluzione al Consiglio di Sicurezza dell’Onu sulle misure concordate”. Il giornalista si contraddiceva però subito dopo quando riferiva che il ministro degli Esteri russo Kozyrev si era opposto alla richiesta statunitense di frequenti e massici interventi aerei dei caccia della Nato, così come si era opposto assieme al collega britannico Hurd alla revoca dell’embargo ai musulmani, che infatti era stata presentata solo come riserva, ad evidente dimostrazione che i russi non avevano abbandonato la causa serba come inizialmente sostenuto nell’articolo.


”L’Unità”

Sulle pagine dell’”Unità” invece il 6 luglio si riferiva, all’interno di un articolo sulle dichiarazioni di Clinton in vista del G7 di Napoli, che tra le attese del vertice vi era “un piano “prendere o lasciare” dei Grandi sulla Bosnia”, senza che ci fosse però un accordo su cosa fare in caso di rifiuto delle parti belligeranti.
A fianco di questo stesso scritto però era presente un lungo articolo dedicato alle reazioni sulla vicenda del ministro degli Esteri italiano Martino, il quale sconfessava il “Gruppo di contatto” da cui era stata esclusa l’Italia e proponeva di affidare il negoziato sulla Bosnia al G7 più la Russia. Il testo proseguiva poi illustrando quali erano le caratteristiche del Piano del Gruppo, le sanzioni previste in caso di rifiuto e le prime reazioni dei politici bosniaci. Questo secondo articolo correggeva quindi il precedente, nel quale non era stato segnalata l’esistenza del “Gruppo di contatto” né tantomeno il fatto che questo avesse già proposto un piano di pace, ma dove anzi si sosteneva che a Napoli ci sarebbe stato un nuovo piano dei grandi, quasi a voler sostenere le richieste del ministro Martino.

Nei giorni seguenti poi l’”Unità” cercava di fare chiarezza sulla spartizione territoriale prevista dal Piano di pace con un trafiletto del 7 luglio, mentre l’8 un altro trafiletto riferiva che, nonostante Izetbegović e Silajdžić fossero parzialmente favorevoli al Piano, i musulmani avrebbero fornito la loro risposta solo dopo il voto del Parlamento di Sarajevo del 18 luglio, mentre dei serbi si citava solo la maggiore criticità di Karadžić a riguardo del Piano, senza riferire del medesimo voto sulla questione previsto anche a Pale.
Anche il 10 luglio un altro trafiletto tornava ribadire la volontà del ministro Martino di trasferire al G7 più la Russia, già chiamato dall’”Unità” “G8”, il comitato di lavoro sulla Bosnia creato dal “Gruppo di contatto”.

Dopo una settimana di silenzio sulla proposta di pace del Gruppo, l’”Unità” tornava a parlarne con un ennesimo trafiletto il 18 luglio, dove si riferiva solo che Karadžić aveva dato indicazioni al Parlamento serbo bosniaco di respingere il Piano, senza però riportare che il voto doveva ancora essere espresso.
Il giorno successivo invece un articolo specificava meglio quale fosse la situazione tra i serbi di Bosnia, riferendo che il Parlamento di Pale aveva iniziato il giorno precedente una riunione, ancora in corso di svolgimento, per votare l’accettazione o il rifiuto del Piano. L’”Unità” quindi sottolineava che i serbi erano pronti a rifiutarlo, in base ai sondaggi della vigilia e alle dichiarazioni di Karadžić, il quale, seppur senza dare indicazioni di voto precise, aveva definito l’accettazione delle proposte la possibilità “meno onorevole”.
Nel proseguimento del testo si riferiva anche che le assemblee separate di croati e musulmani avevano già votato a favore del Piano, e che quindi sicuramente la loro assemblea comune avrebbe espresso lo stesso parere, anche se in realtà questa votazione congiunta non era prevista e l’”Unità” era infatti l’unico quotidiano a citarla nei suoi articoli.

Il 20 luglio quindi l’”Unità” riferiva con un breve articolo che la risposta dei serbo bosniaci era stata quella temuta alla vigilia, ossia un “nì e molto pesantemente condizionato”, anche se poi nel testo veniva specificato che il contenuto ufficiale della risposta sarebbe stato reso noto solo il giorno successivo a Ginevra. Il quotidiano del Pds riferiva però che “indiscrezioni sufficientemente attendibili”, poi identificate nel testo con l’agenzia di stampa “Sma”, avevano fatto trapelare quali sarebbero state le condizioni poste dai serbi, ma ricordava anche che “il piano era stato avanzato nella forma di un definitivo “prendere o lasciare” con l’avvertimento che un assenso condizionato sarebbe stato preso per un rifiuto”.
Il 21 luglio invece un trafiletto riferiva che da Ginevra non erano ancora state rese pubbliche le richieste dei serbi, ma che i negoziatori avevano giudicato “più negativa del previsto” la risposta di Karadžić.
Nella stessa pagina dell’”Unità” veniva inoltre riportata la traduzione di un lungo articolo di Juan Goytisolo pubblicato sul “El Paìs”. Lo scrittore, che aveva visitato in più occasioni le città della Bosnia colpite dalla guerra, accusava duramente l’Onu e i paesi europei di aver legittimato da sempre le atrocità e le conquiste serbe, ed oltre ad addurre diversi esempi di tale complicità, muoveva la stessa accusa anche a riguardo del nuovo Piano di pace che a suo dire regolarizzava il genocidio serbo.

Il 22 luglio l’”Unità” pubblicava infine un articolo sulla risposta completa dei serbi al Piano di pace, risposta della quale veniva illustrato chiaramente il testo e che veniva definita come “del tutto evasiva”. Nell’articolo si riferivano poi le divergenze di opinione tra gli Stati Uniti e la Russia su come considerare la risposta dei serbi, come anche le dichiarazioni dell’inviato speciale delle Nazioni Unite Akashi, il quale minacciava di ritirare tutti i caschi blu dalla Bosnia se i serbi avessero rifiutato definitivamente il Piano.
Il quotidiano diretto da Veltroni poi annunciava che in seguito a tale risposta Izetbegović aveva già ritirato il sì incondizionato dei musulmani al Piano e che dei voli umanitari erano stati colpiti a Sarajevo, mentre il ministro degli Esteri tedesco Kinkel aveva dichiarato che se i serbi non avessero cambiato posizione entro la nuova riunione prevista per il 30 luglio, la risposta sarebbe stata considerata un rifiuto con tutte le conseguenze del caso.

Il 23 luglio invece l’”Unità” presentava un editoriale di Piero Fassino, il quale sosteneva fermamente che la risposta dei serbi fosse negativa, e che avrebbe provocato una nuova escalation nella guerra.
Fassino però partiva da questa premessa per affermare che la soluzione per la guerra in Bosnia non fosse quella di lasciarne decidere le sorti sul campo di battaglia, ma bensì invece quella di aumentare le pressioni diplomatiche da parte di Onu, Unione europea, Stati Uniti e Russia, anche se fino a quel momento si erano rivelate inutili. Fassino sosteneva inoltre che l’Italia non era esente da tale responsabilità, e che anzi doveva porsi “l’obiettivo di svolgere una funzione adeguata alla gravità della crisi”, per tentare di mettere poi in campo “una iniziativa unita e solidale dell’Unione Europea”, creando una coesione che era mancata fino ad allora, contribuendo ad indebolire le azioni di pace promosse.
Il quotidiano del Pds presentava poi 24 luglio solo un breve trafiletto per informare che Mirjana Marković, moglie di Milošević, si era espressa a favore del Piano di pace proposto dal “Gruppo di contatto”, ma nel testo non si ricordava che essa era anche a capo di uno dei partiti socialisti di Belgrado.

Il 29 di luglio l’”Unità” pubblicava quindi nuovamente un articolo sulla situazione diplomatica, nel quale si annunciava che il Parlamento di Pale aveva sostanzialmente confermato il rifiuto al Piano di pace nonostante le pressioni dei diplomatici russi, e che una “situazione di quasi rottura sul piano diplomatico” si accompagnava anche “all’inasprimento del confronto sul campo”. In attesa quindi di una risposta del “Gruppo di contatto”, l’”Unità” dichiarava mestamente che “mesi di lavoro, di mediazione e di speranze” sembravano “in poche parole essere andati in fumo”.
Il giorno successivo poi veniva pubblicato un articolo dai toni altisonanti intitolato “Bombarderemo i serbi”. Nel testo infatti si annunciava che nella giornata stessa i ministri degli Esteri del “Gruppo di contatto” si sarebbero riuniti a Ginevra per dare una risposta “dura” al rifiuto dei serbi di Bosnia al loro Piano di pace.
Si sottolineava inoltre che le dichiarazioni più decise in questo senso erano arrivate dagli statunitensi, ed in particolare dal segretario di Stato Christopher, convinto del fatto che il suo paese fosse pronto a far entrare in azione i bombardieri. L’autore dell’articolo ricordava quindi che i componenti del Gruppo erano già d’accordo nell’attuare nuove sanzioni contro Belgrado e Pale, e pure ad aumentare la sicurezza delle cosiddette “aree protette”, mentre mancava l’intesa sull’eventuale revoca dell’embargo sulle armi per i musulmani.

Il giorno seguente 31 luglio però l’”Unità” era costretta a smentire in parte quanto affermato il 30. In un articolo intitolato “Giro di vite sulla Serbia” infatti, il quotidiano del Pds riferiva che come previsto erano state inasprite le sanzioni contro la federazione di Serbia e Montenegro, ma che invece era mancato un ultimatum deciso nei confronti dei serbo bosniaci.
A questi ultimi infatti, il “Gruppo di contatto” aveva lanciato un nuovo appello ad accettare il Piano di pace, minacciando in caso contrario di togliere l’embargo ai musulmani, ma evitando di fare riferimento a nuove azioni militari della Nato contro di essi. Questa presa di posizione moderata era frutto, secondo l’”Unità”, di un compromesso fra le nazioni facente parti del Gruppo per tentare di “dimostrare un fronte unito”.
L’articolo dell’”Unità” era però uguale, in questo punto ed in altri periodi, a quello presentato dal “Giornale” nella stessa giornata, il che dimostrava che erano quindi stati copiati dalla stessa notizia di Agenzia.
Risaltava però, leggendo i testi, il diverso taglio dato dai due quotidiani alle dichiarazioni del ministro degli Esteri russo Kozyrev.
Il “Giornale” infatti riferiva che Kozyrev aveva messo in guardia gli occidentali contro possibili raid aerei sui serbi, che avrebbero provocato un nuovo bagno di sangue in Bosnia, mentre l’”Unità” riportava solo la delusione del ministro russo per l’ostinazione con cui i serbi continuavano ad opporsi ai suoi consigli di accogliere il Piano di pace. In questo caso quindi i due quotidiani, pur avvalendosi della medesima fonte, pubblicavano solo alcune delle dichiarazioni del politico russo, omettendone entrambi delle parte rilevanti e facendo così apparire la posizione della Russia in merito all’atteggiamento dei serbi in due modi diametralmente opposti.


”La Stampa”

Sulle pagine della “Stampa” infine le prime notizie sulla proposta di pace ufficiale del “Gruppo di contatto” erano pubblicate l’1 luglio, all’interno di un articolo di Ingrid Badurina sulla ripresa dei combattimenti in Bosnia nonostante la tregua in atto, articolo nel quale la giornalista ricordava che il 5 luglio sarebbe stato presentato a Ginevra il nuovo Piano di pace, di cui dava alcune anticipazioni.
Il 6 luglio quindi sempre la stessa giornalista presentava un articolo dove si riferivano i dettagli del Piano di pace presentato dal Gruppo, come anche il fatto che, seppur in mancanza di dichiarazioni ufficiali, i serbi sembravano gli unici intenzionati a rifiutarlo. Nello stesso testo Badurina riferiva poi anche delle lamentele del ministro degli Esteri italiano Martino per l’esclusione dell’Italia dal “Gruppo di contatto”, come della sua richiesta di decidere sul futuro della Bosnia al G7 con la presenza della Russia.

La “Stampa” ritornava poi a parlare del Piano di pace in occasione della chiusura del G7 di Napoli, e in particolare l’11 luglio quando dedicava buona parte dell’articolo sul bilancio politico del summit alla crisi bosniaca. Per l’autore Paolo Passarini infatti, il documento con cui i politici partecipanti al G7 esortavano i vari gruppi bosniaci ad accettare entro il 19 luglio la proposta del “Gruppo di contatto”, pur non aggiungendo praticamente niente di nuovo a quanto già dichiarato a Ginevra il 5 luglio, rappresentava il punto in cui il summit aveva prodotto di più perché era quello che aveva ricevuto il maggior apporto da El’cin.

Il 17 luglio invece, in un articolo dedicato all’insediamento come sindaco di Mostar del tedesco Koschnik, previsto per il 23 dello stesso mese, si riferiva anche che i parlamentari croati il giorno precedente avevano votato l’accettazione del Piano di pace, mentre per i musulmani si sarebbe espresso il giorno successivo il Parlamento di Sarajevo, anche se le autorità bosniache avevano già dichiarato il loro appoggio al Piano. In conclusione si ricordava che invece i serbi non avevano ancora dato risposte certe, ma non si riferiva che anche a Pale era prevista un’assemblea sulla questione sempre per il 18 luglio.
Il 19 luglio poi sul quotidiano torinese era Ingrid Badurina a riferire quindi con un articolo che era in corso di svolgimento dal giorno precedente la riunione dei parlamentari serbo bosniaci, i quali sembravano poco propensi ad accettare il Piano. Badurina affermava inoltre che Milošević aveva tentato in tutti i modi di convincere Karadžić e gli altri leader dei serbi di Bosnia a rilasciare dichiarazione favorevoli alla proposta del “Gruppo di contatto”, ma ammetteva anche che con molta probabilità si sarebbero espressi comunque in modo contrario a quanto suggerito loro.
La giornalista croata annunciava poi che anche i musulmani avevano votato a favore del Piano come già fatto dai croati, anche se con la loro accettazione avevano chiesto delle garanzie sul “ritorno dei profughi alle loro case e la condanna di tutti i criminali di guerra”.

Anche il 21 luglio sulla “Stampa” era sempre Badurina a riferire che il Parlamento dei serbo bosniaci aveva respinto la proposta internazionale di pacificazione, e che ora si attendevano le ritorsioni annunciate dal “Gruppo di contatto” in caso di mancata accettazione del Piano. La giornalista croata riferiva però che, già prima della conclusione delle trattative diplomatiche, due aerei americani erano stati colpiti nei cieli della Bosnia, probabilmente dalla contraerea serba.
Gli articoli incentrati sul Piano di pace per la Bosnia di Ingrid Badurina pubblicati sulla “Stampa” proseguivano quindi il 22 luglio.
La giornalista croata riferiva dunque delle condizioni poste dai serbi per la loro accettazione del Piano al “Gruppo di contatto”, e sottolineava anche che i diplomatici facenti parte del Gruppo avevano avvertito i serbi che se entro fine mese non avessero cambiato responso, le conseguenze avrebbero potuto essere un rafforzamento delle sanzioni contro Belgrado e la revoca dell’embargo sulle armi ai bosniaci. Badurina riportava poi anche la posizione del Presidente bosniaco Izetbegović, il quale chiedeva alla comunità internazionale di mettere in atto le minacce contro i serbi pronunciate il 5 luglio a Ginevra dal “Gruppo di contatto”, pena il ritiro del consenso di croati e musulmani al Piano di pace.

Il 23 luglio poi la “Stampa” pubblicava solo un trafiletto nel quale si riferiva che il segretario alla Difesa americano Perry aveva ufficialmente concesso altri otto giorni di tempo ai serbi per cambiare la loro risposta al Piano di pace, ma il quotidiano torinese sottolineava come “ancora una volta la comunità internazionale esita di fronte alla prospettiva di reagire con durezza all’ambiguità” dei serbi.
Il 25 luglio invece la “Stampa” pubblicava un editoriale di Aldo Rizzo ottimisticamente intitolato “Giorni contati per la sfinge serba”, nel quale il giornalista sosteneva che il “”sì, ma” dei serbi bosniaci al piano di pace” era un segnale dell’imminente “ripresa in grande stile della guerra”. Rizzo sosteneva infatti che se l’Occidente avesse avuto la forza di mettere in atto le sue minacce, allora sarebbe sicuramente ripresa la guerra con il rischio di un allargamento del conflitto alle nazioni confinanti con la Bosnia. Secondo il giornalista però, una mancata risposta del “Gruppo di contatto” sarebbe stata una scelta ancora peggiore, in quanto la guerra avrebbe potuto comunque espandersi, ed in più americani ed europei avrebbero dimostrato di poter essere “tragicamente turlupinati dagli aggressori di Belgrado e di Pale”. Rizzo concludeva infine ammonendo che un altro segnale ambiguo era stato quello dato dai russi, che avevano concesso il loro avallo “al gioco serbo di non stringere accordi reali, pur fingendo di negoziare”, e dai quali quindi gli occidentali avrebbero dovuto pretendere una risposta chiara quanto quella richiesta ai serbi.

Sarajevo, con i serbi che avevano chiuso le strade di accesso alla città e bloccato le forniture di luce, acqua e gas, si ricordava che alla vigilia della riunione di Ginevra del “Gruppo di contatto”, non si sapevano ancora gli esiti dei colloqui avuti dai politici russi con le autorità di Pale e Belgrado, ma nel testo si affermava che “secondo fonti diplomatiche” i serbi erano “disposti a cambiare la loro risposta negativa”.

La “Stampa” pubblicava poi il 30 luglio solo un piccolo trafiletto che annunciava che gli americani erano pronti a bombardare i serbi nel caso in cui avessero risposto ancora no al Piano di pace, mentre il 31 luglio un nuovo articolo di Ingrid Badurina riportava i risultati dell’incontro del “Gruppo di contatto” a Ginevra il giorno precedente.
Con toni decisamente sconsolati la giornalista croata riferiva dunque che, contrariamente a quanto riportato dalla “Stampa” il 28, il Parlamento di Pale aveva nuovamente rifiutato di accettare il Piano di pace, mentre i ministri degli Esteri presenti all’incontro avevano annunciato il rafforzamento della sanzioni contro Belgrado, offrendo però ancora una volta ai serbi di Bosnia la possibilità di cambiare idea, ed inoltre senza accennare a possibili misure militari.
Badurina sottolineava inoltre che in realtà non erano state specificate le nuove sanzioni contro Belgrado, e che probabilmente sarebbe stato solo effettuato un controllo più efficace su quelle già esistenti, anche perché l’embargo era sempre stato sistematicamente aggirato. La giornalista sosteneva poi che i serbi non sembravano particolarmente preoccupati dalle decisioni del Gruppo, visto che avevano annunciato un nuovo blocco di tutte le strade bosniache sotto il loro controllo, e affermava infine che a Mosca tale esito delle negoziazioni veniva reputato come “una nuova vittoria della diplomazia russa”, in quanto dopo un lungo colloquio tra Kozyrev e Christopher gli Stati Uniti avevano rinunciato ad inserire nel comunicato del Gruppo la cancellazione dell’embargo sulle armi ai musulmani.


Conclusioni

In conclusione, nel luglio del 1994 i quotidiani italiani erano generalmente concordi nel ritenere le risposte date dai serbo bosniaci al Piano di pace come negative, come lo erano anche nel accusare il “Gruppo di contatto” di ricercare solo il compromesso tra i suoi membri senza voler invece agire con decisione.
Solamente “L’Osservatore Romano” molto diplomaticamente evitava di commentare sia la risposta dei serbi che il comportamento del Gruppo, mentre invece il solo “Corriere della Sera” riteneva positiva la decisione dello stesso di rispondere inasprendo solamente le sanzioni contro Serbia e Montenegro.
Tra le testate che ritenevano negativa tale decisione invece, “Il Popolo”, il “Secolo d’Italia”, “Il Giornale” e “L’Unità” affermavano però che fosse meglio evitare un intervento militare, “Repubblica” non si esprimeva in merito, mentre l’unica testata a richiederlo apertamente era “La Stampa”.
Il 31 luglio tra l’altro il “Popolo” e il “Secolo” avevano pubblicato due articoli copiati in più punti dalla medesima notizia di agenzia sulla mancata comunione di intenti tra i rappresentanti del Gruppo di contatto, ed anche il “Giornale” e l’”Unità” avevano fatto la medesima cosa tra loro nella stessa data. Queste ultime due testate però, nel presentare due scritti molto simili e anzi uguali per alcuni periodi, avevano anche modificato drasticamente parte dei contenuti, fuorviando così i rispettivi lettori sulla posizione della Russia nei confronti della risposta serba al Piano di pace. Sul “Giornale” infatti erano state riportate solo le dichiarazioni dei politici russi che facevano apparire Mosca apertamente schierata con i serbi, mentre al contrario l’”Unità” aveva pubblicato solo quelle parole che facevano sembrare la Russia molto vicina alle posizioni occidentali nel condannarli.


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