Crimini di guerra


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Un pezzo nascosto di storia italiana del Novecento
La prima strage al mercato di Markale, Sarajevo
(5 febbraio 1994)


Il fallimento dei colloqui di pace e l’inasprirsi del conflitto

Con il ritorno di Alija Izetbegović a Ginevra il 18 agosto 1993, ripresero ufficialmente anche i colloqui di pace che prevedevano la tripartizione della Bosnia in tre repubbliche.
Izetbegović accettò quindi di concedere la smilitarizzazione di Sarajevo, che sarebbe stata amministrata dall’Onu per due anni, ma pretese in cambio che alle quattro aree non comunicanti di cui sarebbe stata composta la Repubblica musulmana venissero aggiunti anche gli sbocchi sull’Adriatico presso Neum e sulla Sava presso Brćko.
I croati e i serbi di Bosnia erano però disposti a concedere solo dei corridoi d’accesso alle due zone richieste dal Presidente bosniaco, e così il Parlamento di Sarajevo rifiutò il nuovo piano proposto dai mediatori occidentali Owen e Stoltenberg, dato che inoltre “legalizzava il controllo dei serbi su gran parte dei territori occupati e sottintendeva l’abolizione delle sanzioni contro la Jugoslavia.”.

Dei nuovi colloqui furono avviati già il 20 settembre, questa volta nell’Adriatico, in acque internazionali a bordo dell’incrociatore britannico “Invincible”. Quando però i rappresentanti delle tre etnie sembravano aver raggiunto un compromesso accettabile, che concedeva ai serbi il 53 per cento del territorio bosniaco, ai croati il 17 per cento e ai musulmani il 30 con degli sbocchi parziali su Adriatico e Sava, Izetbegović si rifiutò nuovamente di firmare il piano senza l’approvazione del Parlamento di Sarajevo. Il Presidente bosniaco aveva deciso di tenere questa linea anche per i continui successi militari delle forze musulmane, che erano riuscite nelle ultime settimane a conquistare a danno dei croati più di 3000 km quadrati di territorio in Bosnia centrale ed in Erzegovina.
Com’era prevedibile, i rappresentanti delle istituzioni musulmane riunitisi a Sarajevo il 28 settembre rifiutarono di firmare il nuovo patto, affermando provocatoriamente che lo avrebbero accettato solo se i serbi avessero restituito in cambio tutti i territori occupati.

Nel frattempo però all’interno dello schieramento musulmano si era consumata la frattura tra Izetbegović e Fikret Abdić, un ex industriale eletto nel 1990 nella Presidenza collettiva della Repubblica, che dallo scoppio della guerra controllava la sacca territoriale a maggioranza musulmana di Bihać, stretta nella morsa tra i serbi di Knin e i croati della Herceg Bosna.
Abdić, finanziato segretamente da Milošević e Tudjman, iniziò quindi ad accusare Izetbegović di fondamentalismo islamico, e sfruttando la sua partecipazione ai colloqui di Ginevra di fine agosto richiese ufficialmente che la Bosnia venisse divisa in quattro repubbliche, reclamando quindi tale status anche per la regione di Bihać.
Oltre a ricevere un netto rifiuto da parte del Parlamento di Sarajevo, e a provocare alcuni scontri militari tra le due fazioni musulmane createsi, tale manovra non ottenne tra l’altro l’effetto sperato di indebolire la posizione di Izetbegović, anzi. La decisione di Abdić di firmare il 21 e 22 ottobre due trattati con Boban e Karadžić contribuì infatti a fomentare il nazionalismo islamico, rafforzando l’Assemblea musulmana di Sarajevo, che riuscì così di fatto ad esautorare il Parlamento e ad allontanare gli ultimi croati rimasti nel consiglio di guerra, nominando inoltre come nuovo premier il precedente ministro degli esteri Silajdžić, già allontanato da Izetbegović per le sue posizioni anti occidentali.
Uno dei primi provvedimenti del nuovo consiglio di guerra, che agiva praticamente come un governo e mirava ad ottenere il controllo completo di Sarajevo, fu quello di ordinare alle unità speciali dell’esercito di arrestare i due criminali che spadroneggiavano in città, ossia “Caco” e “Celo”, che fino ad allora avevano agito impuniti grazie alla loro partecipazione alla difesa della capitale.

Mentre anche Tudjman e Milošević dovevano occuparsi della crescente opposizione interna ai loro piani di conquista della Bosnia, i paesi occidentali avevano invece diversi interessi a mantenere l’embargo nei confronti dell’ex Jugoslavia, così da poterla poi rifornire illegalmente di armi, come riporta lo storico Pirjevec citando i dati pubblicati dal periodico “Jane’s Defence Weekly”.
Secondo la rivista britannica infatti, nei primi due anni del conflitto ai contendenti erano state forniti illegalmente armi e munizioni per un valore di 600 milioni di dollari ai soli croati, per 476 milioni ai serbi e per 162 milioni ai bosniaci. Oltre che agli eserciti regolari, questa immensa quantità di armamenti andava a rifornire anche la quarantina di gruppi paramilitari che operavano nei territori dell’ex Jugoslavia, con la presenza tra l’altro di molti mercenari stranieri, primi fra tutti russi e islamici, ma anche europei occidentali.
Tra questi gruppi, va ricordata inoltre la forza internazionale di 3000 volontari composta nella Krajina croata dal capitano Dragan, formata al 30 per cento da italiani, tra i quali vi erano alcuni ex legionari e terroristi, e finanziata dai serbi, dalla mafia e dai circoli irredentisti che puntavano alla revisione del trattato di Osimo del 1975.

Nonostante l’Onu il 4 ottobre avesse deciso con la risoluzione 871 di prolungare la presenza dell’Unprofor in ex Jugoslavia fino al 31 marzo 1994, in quello stesso mese in Bosnia si assistette alla crescita esponenziale degli scontri tra musulmani e croati, scontri che portarono anche alla distruzione del secolare ponte sulla Neretva di Mostar, crollato sotto le cannonate croate il 9 novembre 1993.
Senza il ponte, i 55.000 abitanti della zona musulmana della città persero anche l’ultimo accesso rimasto alla fonte di acqua potabile presente nella zona croata, e questa catastrofe andò inoltre ad aggiungersi alla già tragica situazione che si era creata con il blocco degli aiuti umanitari effettuato dai serbo bosniaci e dai croati d’Erzegovina.
Entrambi i due schieramenti infatti, dopo l’ultimo rifiuto musulmano del piano Owen-Stoltenberg, avevano annullato tutti gli accordi stipulati in precedenza ed impedito quindi il passaggio dei convogli fino al 18 novembre, data in cui venne poi raggiunto a Ginevra un nuovo accordo tra le tre parti in lotta che avrebbe dovuto garantirne il passaggio.

Mentre a Ginevra proseguivano quindi infruttuosamente i colloqui di pace, i rapporti di forza nello scacchiere bosniaco mutavano in continuazione.
L’esercito musulmano infatti, guidato ora dal colonnello Rasim Delić, che aveva deciso di reintegrare alcuni ufficiali non musulmani dell’Armata popolare di stanza in Bosnia prima della guerra, aveva migliorato il proprio apparato grazie ai grossi quantitativi di armi e denaro inviatigli dai paesi arabi a tale scopo. Le truppe musulmane dunque, seppur ancora deficitarie nei confronti dei serbi su aviazione e artiglieria, stavano diventando un esercito di tutto rispetto, ed erano riuscite a congiungere le principali regioni sotto il loro controllo, ossia Sarajevo, Zenica, Tuzla e Mostar.
Nel frattempo era passata quasi sotto silenzio il 17 novembre la seduta inaugurale del Tribunale penale internazionale per l’ex Jugoslavia, i cui 11 giudici che avevano l’incarico “di perseguire i responsabili di crimini di guerra, di genocidio e di delitti contro l’umanità, commessi nei territori dell’ex Jugoslavia dopo il 1991”, avevano la facoltà di farlo non solo nei confronti degli esecutori materiali dei reati, ma anche con le persone che ne avessero organizzato e ordinato l’esecuzione. Essendo però i principali responsabili della tragedia bosniaca gli stessi leader con i quali veniva trattata la pace a Ginevra, durante il conflitto e per alcuni anni successivi alla sua fine, non fu possibile per i giudici dell’Aja chiamarli sul banco degli imputati.

Sul finire del 1993 era comunque evidente che le forze serbe e croate non erano in grado di ottenere militarmente la tripartizione della Bosnia tratteggiata a tavolino a Ginevra, e con i colloqui di pace arenati il paese si preparava ad un altro inverno di guerra.
Gli Stati Uniti nel frattempo, dopo aver dichiarato a più riprese che la crisi bosniaca non rientrava nei loro interessi strategici, si erano resi conto che la loro credibilità era messa in dubbio da quanto succedeva in Somalia e nell’ex Jugoslavia.
Le sanzioni economiche avallate dalla diplomazia americana si erano poi dimostrate inutili per mettere fine al conflitto, mentre in Russia la presidenza di El’cin era messa a dura prova dall’opposizione del politico nazionalista Žirinovski, che prometteva aiuti ai “fratelli serbi”, provocando così anche l’euforia di Karadžić, che approfittò del turno della Grecia alla presidenza dell’Unione europea iniziato nel gennaio del 1994 per proporre “una coalizione di tutti i paesi ortodossi intorno alla Russia”, per creare così un fronte unito contro l’Occidente.
Per tutta questa serie di ragioni, tra il 1993 e il 1994 Clinton cominciò a mutare politica sui Balcani, ed iniziò a preparare con la sua amministrazione un piano che riavvicinasse croati e musulmani per isolare i serbi. Grazie anche al lavoro preparatorio di Peter W. Galbraith, ambasciatore statunitense a Zagabria dall’estate precedente, il 4 gennaio del 1994 si incontrarono a Vienna il premier bosniaco Silajdžić e il ministro degli Esteri croato Granić, che si scambiarono assicurazioni reciproche sulla sorte dei prigionieri ed emisero un comunicato dove auspicavano l’inizio di trattative per riassestare i loro rapporti.

Nel frattempo però, anche all’interno delle Nazioni Unite gli attriti sulle modalità di intervento in Bosnia stavano emergendo con sempre maggior frequenza. La causa principale fu “il diffuso disagio provocato dall’ossessiva preoccupazione di Boutros-Ghali di mantenere fra le parti in lotta un’equidistanza, che a molti sembrava sconfinare nell’inerzia”, e che finiva inoltre per fare il gioco dei serbi.
Nel dicembre del 1993 si aprirono quindi le polemiche quando Thorvald Stoltenberg diede le dimissioni dalla carica di rappresentante speciale del segretario generale dell’Onu presso l’Unprofor, a causa dei contrasti avuti con il generale Jean Cot, il comandate delle forze dell’Onu nell’ex Jugoslavia, il quale rivendicava una totale autonomia dai funzionari civili per avere la possibilità di reagire agli attacchi subiti dalle sue truppe.
Stoltenberg mantenne comunque un ruolo alla Conferenza internazionale per Sarajevo, e al suo posto Boutros Ghali chiamò il giapponese Jasushi Akashi, diplomatico dell’Onu recentemente segnalatosi per aver concluso ottimi accordi di pace in Cambogia, il quale presentava tra l’altro il vantaggio di non appartenere a nessuna delle tre religioni in lotta in Bosnia.

A questo cambio diplomatico fece seguito invece un avvicendamento forzato sul piano militare, con il comandante dei caschi blu in Bosnia Francis Briquemont che venne sostituito il 22 gennaio 1993 dal tenente-generale britannico Michael Rose. Il generale francese si era infatti reso colpevole di aver criticato pubblicamente il 30 dicembre il Consiglio di Sicurezza, dimostratosi a suo dire parsimonioso nell’invio di soldati e al contrario prodigo nell’emanazione di risoluzioni, dando inoltre alle truppe Onu un mandato inadeguato per contrapporsi alle parti in lotta.
Senza curarsi di quanto era capitato a Briquemont, il suo superiore Jean Cot si spinse ancora più in là quando il 4 gennaio le Nazioni Unite respinsero la sua richiesta di un intervento aereo della Nato a favore di Sarajevo e, dopo aver criticato la passività di Ghali e dell’Onu, aveva preteso l’abolizione della procedura della “doppia chiave” per richiedere i bombardamenti.
Il segretario dell’Onu quindi, nel giro di pochi mesi, riuscì a far sì che Mitterrand sostituisse Cot con il generale Bertrand de Lapresle.

I contrasti dell’Onu furono accompagnati anche dalla paralisi della comunità internazionale, emersa ancora una volta dal summit della Nato svoltosi tra il 10 e l’11 gennaio a Bruxelles. Anche in questa occasione infatti, le minacce di bombardamenti annunciate ai serbi, se non avessero allentato la morsa su Sarajevo, permesso la riapertura dell’aeroporto di Tuzla ed il passaggio di consegne a Srebrenica tra i caschi blu canadesi e quelli olandesi, non vennero accompagnate da decisioni precise per un eventuale intervento.
Clinton era stato costretto ad accettare questo comunicato della Nato per la solita prudenza del governo britannico, al quale si era aggiunto quello canadese, confermando ancora una volta la passività dei governi europei nell’affrontare la questione balcanica. L’unica concessione infatti che i membri dell’Alleanza atlantica ottennero dalle truppe serbe di Mladić, apparentemente poco intimorito dagli avvertimenti, fu il permesso di sostituire il contingente canadese di Srebrenica con quello olandese.

I membri della Nato iniziarono però ad attenuare polemiche e contrasti quando una serie ravvicinata di stragi e atrocità colpirono la Bosnia.
Il 22 gennaio infatti delle granate colpirono a Sarajevo il quartiere di Alipašino Polje, uccidendo 6 bambini e suscitando l’orrore dell’opinione pubblica occidentale, con il Partito Democratico della Sinistra che arrivò addirittura, e con una certa ipocrisia, a proporre le vittime per il premio Nobel per la pace, mentre i serbi, con la solita sfrontatezza, accusarono le truppe musulmane di aver bombardato la propria gente per spingere l’Occidente all’intervento.
La stessa tragica morte toccò poi a quattro bambini croati il 23 gennaio a Mostar, mentre il 28, sempre nel capoluogo dell’Erzegovina, persero la vita tre collaboratori della sede Rai di Trieste.
In seguito poi alla visita a Sarajevo il 2 febbraio dei primi ministri turco e pakistano, ossia Benazir Bhutto e Tansu Ciller, che chiesero pubblicamente la fine dell’embargo sulle armi ai bosniaci, ma che non avevano richiesto ai serbi il permesso di atterrare all’aeroporto come stabilito dagli accordi del giugno ’92, il 4 febbraio tre granate uccisero dieci persone in coda per la distribuzione del cibo in un quartiere di Sarajevo.

Ma fu il giorno successivo, sabato 5 febbraio, che si consumò il massacro di civili più grave nella capitale bosniaca dall’inizio della guerra, quando una granata di mortaio da 120 millimetri colpì dopo mezzogiorno l’affollato mercato centrale di Sarajevo, Markale, provocando 68 morti e 197 feriti. I serbi declinarono nuovamente ogni responsabilità nell’attacco, e Karadžić arrivò addirittura a sostenere che i morti potevano in realtà essere dei manichini o dei vecchi cadaveri precedentemente posizionati dai musulmani.
Il giornalista del “New York Times” David Beinder condusse in seguito un’inchiesta approfondita sulla strage pubblicata da “Foreign Policy”, nella quale rivelò come tre diverse rilevazioni effettuate il giorno stesso della strage sul punto di caduta e sulla traccia di deflagrazione dell’ordigno riferirono risultati diversi, in base ai quali la paternità dell’attacco poteva essere attribuita in due casi ai serbi ed in uno ai musulmani.
A quel punto l’Unprofor aveva quindi deciso di nominare una commissione d’inchiesta, le cui conclusioni respinsero i precedenti rapporti per stabilire invece che l’ordigno era partito da una posizione in cui passava la linea di separazione tra l’esercito musulmano e quello serbo, e che in definitiva non era quindi possibile accertare di chi fosse l’effettiva responsabilità del massacro di Markale.


I giorni che precedettero la strage sui giornali italiani

Sui giornali italiani nei primi giorni di febbraio gli articoli riguardanti la Bosnia erano stati dedicati ai possibili imminenti raid aerei della Nato, ed alla presunta presenza di militari regolari croati in territorio bosniaco, ma veniva concesso spazio anche alle notizie più mediatiche e spettacolari.
Ad esempio ancora molto si parlava della morte di Dario D’Angelo, Marco Lucchetta e Alessandro Ota, i tre collaboratori della Rai di Trieste uccisi a Mostar, come sul “Corriere” dove, in occasione dei funerali, l’1 febbraio venivano pubblicati gli interventi di Claudio Magris e Ettore Mo, che avevano partecipato alle esequie dei giornalisti, o come su “Stampa” e “Unità”, che il 4 febbraio pubblicavano entrambe un lungo articolo rispettivamente di Giuseppe Zaccaria e Mauro Montali, inviati per l’occasione a Mostar a ripercorrere gli ultimi giorni di vita dei giornalisti Rai.
Tra l’altro, dagli episodi riportati nei due testi, risultava evidente che i due giornalisti si erano mossi assieme per la città, anche se evitavano accuratamente di riferirlo.

Molte testate poi dedicavano quasi quotidianamente un trafiletto alle visite del nazionalista russo Žirinovski nei territori controllati dai serbi nell’ex Jugoslavia, il quale non perdeva occasione per ricordare l’appoggio della Russia alla causa serba, promettendo ai “fratelli serbi” l’arrivo di una nuova “arma segreta”.
Tra i quotidiani però solo la “Stampa” pubblicava un editoriale di Enzo Bettiza sulla mentalità del “tonitruante Vladimir Žirinovski”, che aveva trovato accoglienza per i suoi discorsi a Belgrado e nelle simboliche città di Vukovar e Bijelina, strappate dai serbi con la forza rispettivamente a croati e musulmani. Bettiza definiva quella del politico russo una “tournée nazionalstalinista fra le macerie della guerra balcanica”, nella quale egli affermava che il sogno panslavista doveva combattere contro i cattolici a est e i musulmani a sud, dimenticandosi, secondo lo scrittore di Spalato, che la slavità era molto più complessa di una semplice divisione per religioni, e che il fratricidio sistematico che veniva predicato, poggiava su basi storiche illusorie e falsificate.
La gravità della situazione, secondo Bettiza, risiedeva nel fatto che “questo clima di genocidio interslavo […] si staglia oggi su uno scenario che sembra ripetere in maniera allarmante quello che diede avvio alla prima guerra mondiale”, e dopo aver ricordato i parallelismi tra la Bosnia attuale e quella degli anni che precedettero il conflitto mondiale, Bettiza ammoniva di non sottovalutare la possibilità di una ripetizione della storia, ipotizzando ad esempio cosa sarebbe potuto succedere se El’cin fosse morto in un incidente aereo e Žirinovski avesse poi vinto le elezioni in Russia.

Il 3 febbraio invece tutti i quotidiani riferivano della visita a Sarajevo dei premier turco e pakistano, Ciller e Bhutto, i primi capi di governo a recarsi in città dopo la visita di Mitterrand nel giugno del ’92. Su questa notizia il “Giornale” ed il ”Popolo”, che pubblicavano un articolo identico parola per parola, non mancavano di criticare il fatto che la visita umanitaria delle due “dame dell’Islam” aveva presto assunto un carattere politico.
Su “Repubblica” invece, che si occupava di tutti questi avvenimenti e che era, con “L’Unità” e la “Stampa”, tra i quotidiani che più davano spazio ad ogni aspetto del conflitto bosniaco anche nei periodi di relativa quiete, spiccava tra i molti articoli pubblicati quello dell’1 febbraio intitolato “Noi di Sarajevo ultimo ostacolo a una pace iniqua” firmato da Zlatko Dizdarević, all’epoca giornalista dell’ultimo quotidiano rimasto in attività a Sarajevo, l’” Oslobodjenje”.
Dizdarević scriveva dunque dalla città assediata, raccontando che gli abitanti ritrovavano sempre la speranza dopo un qualsiasi avvenimento che poteva sembrare positivo, come l’arrivo del generale Rose dalle unità speciali britanniche a sostituire Briquemont, quando in realtà secondo il giornalista bosniaco la speranza era ormai vana per due motivi. Innanzitutto perché Boutros Ghali e l’Onu facevano “di tutto per non fare niente”, sostituendo anche quei comandati che, come Briquemont, chiedevano maggior fermezza da parte delle Nazioni Unite. In secondo luogo, la speranza era ormai vana perché coloro che venivano invitati a Ginevra per trovare una soluzione politica al conflitto erano gli stessi “signori della guerra” che non cercavano la pace.
Dizdarević concludeva il suo articolo accusando quindi i media occidentali di far passare il messaggio che fosse colpa dei musulmani se il conflitto proseguiva, perché le controffensive dell’Armata bosniaca negli ultimi mesi avevano cancellato i piani di pace, mentre non ricordavano come e con quali fini era iniziato il genocidio in Bosnia. Infine il giornalista bosniaco affermava che bisognava porre fine ai massacri per permettere a uomini nuovi, che non traevano cioè profitto dalla guerra, di recarsi al tavolo dei negoziati per la pace.

Il 5 febbraio poi, in tutte le prime pagine dei quotidiani italiani, vi era notizia della strage avvenuta a Sarajevo il giorno precedente, quando tre granate avevano provocato 10 morti e 18 feriti tra le persone che si trovavano in fila per ricevere aiuti alimentari nel quartiere di Dobrinja.
Gli articoli dei quotidiani riferivano anche in questa occasione che le autorità musulmane accusavano della paternità dell’attacco le truppe serbe, le quali nuovamente affermavano che erano stati invece gli stessi musulmani a bombardare la propria gente per attirare l’attenzione internazionale.

Tra i vari articoli dedicati alla strage, che riportavano sostanzialmente le stesse notizie, risaltavano però quelli del “Secolo d’Italia” e del “Giornale”, ma solamente perché erano quasi identici tra loro ed erano stati evidentemente copiati da una notizia di agenzia.
Il 5 febbraio spiccava però anche l’editoriale di Sergio Quinzio pubblicato dal “Corriere” con il titolo “Santità, un gesto da eroe”, nel quale il filosofo cattolico esortava il Santo Padre a prendere in mano la sua croce e recarsi a Sarajevo con un gesto da eroe. Secondo Quinzio, questo gesto andava compiuto per non doversi ritrovare poi a discutere se il Papa aveva detto e fatto abbastanza, come già era accaduto per l’Olocausto, ma soprattutto andava fatto perché la fede cristiana aveva bisogno di una testimonianza decisiva.
Il teologo faceva poi trapelare nel testo la sua consapevolezza che il calcolo delle opportunità e delle conseguenze, che ricordava “non aveva impedito a Cristo di abbandonarsi alla croce”, avrebbe probabilmente impedito al Papa di recarsi a Sarajevo, ma per fortuna secondo Quinzio anche in questa guerra non mancavano “i martiri umili e nascosti”.


La reazione dei quotidiani alla strage di Markale: “Corriere della Sera” e “L’Unità”

Il 6 di febbraio invece la notizia principale di tutti i quotidiani italiani era quella della più grave strage di civili dallo scoppio della guerra, avvenuta a Sarajevo il giorno precedente. Il 5 febbraio infatti, dopo mezzogiorno una granata aveva colpito l’affollato mercato di Markale provocando 68 morti e 197 feriti.

Il “Corriere della Sera” concedeva molto spazio all’avvenimento ed alle notizie ad esso collegato, dedicandogli l’articolo di apertura in prima pagina e la totalità delle pagine 2 e 3.
Il quotidiano di via Solferino presentava tra la prima e la seconda pagina un editoriale di Franco Venturini, il quale affermava sinceramente di essere stanco delle immagini di sangue innocente versato in Bosnia, ma ancora più sinceramente ammetteva che questa stanchezza provata da lui e dagli occidentali era dovuta alla cattiva coscienza per essere complici indiretti del genocidio, avendolo praticamente ignorato. Venturini affermava poi che non sarebbero bastate le spinte morali ad indurre i governi dell’Occidente ad intervenire, e che tutti i cittadini italiani avrebbero dovuto prendere misura della propria impotenza continuando a guardare “quegli schizzi di vergogna che provocano la nostra stanchezza”, perché solo in questo modo un domani si sarebbe potuto tentare nuovamente di “far crescere i nostri ideali piccoli piccoli”.

Sempre a pagina 2 poi il “Corriere” pubblicava un articolo sulle reazioni internazionali alla strage, nel quale si affermava che i 60 morti di Markale pesavano già sul tavolo a cui si sarebbero seduti il giorno successivo i 12 ministri degli esteri dell’Unione Europea, mentre i moniti occidentali venivano ripetutamente irrisi dalle milizie serbe. Nel testo si riferiva anche che Belgio e Italia sollecitavano i raid aerei, mentre la Francia ricordava che solo il negoziato poteva portare ad una pace duratura, e gli Stati Uniti affermavano che non avrebbero mandato truppe in Bosnia ma erano pronti ad azioni decise. Oltre poi alle solite controversie tra i paesi europei, il “Corriere” ricordava la contrarietà della Russia, membro permanente al Consiglio di sicurezza dell’Onu, ad un qualsiasi intervento contro i serbi.
A completare la seconda pagina vi erano un breve scritto sulla presenza dell’esercito croato in Bosnia, confermata anche dal bombardamento effettuato da due jet croati venerdì 4 febbraio, ed un articolo sulle parole pronunciata dal Papa durante il rosario trasmesso da Radio Vaticana la sera precedente, dove il Pontefice, oltre a condannare la carneficina, tornava a chiedere ai responsabili politici internazionali di utilizzare qualsiasi mezzo “anche al prezzo dei più grandi sacrifici”, per raggiungere un vero cessate il fuoco.

La terza pagina del quotidiano diretto da Mieli era invece occupata quasi interamente dall’articolo dedicato alla strage di Markale scritto da Guido Santevecchi. Il giornalista riferiva nei dettagli di come fosse avvenuta la mattanza, con la granata che aveva centrato in pieno il mercato dilaniando i corpi delle persone e fornendo nuove terribili immagini da trasmettere sulle televisioni occidentali. Santevecchi riportava poi la rabbia del vicepresidente bosniaco Ejup Ganić, rabbia rivolta contro i caccia della Nato che il giorno prima avevano sorvolato Sarajevo a bassa quota senza fare niente, giusto poche ore dopo l’altra strage di civili avvenuta a Dobrinja. Ganić inoltre chiedeva la fine dell’embargo sulla Bosnia per potersi difendere, visto che chiaramente gli occidentali non erano disposti a farlo.
Santevecchi infine, dopo aver riportato le accuse rivolte ai serbi sulla paternità della strage e le solite controaccuse indignate di questi contro i musulmani, concludeva l’articolo riportando le ormai celebri parole del presidente bosniaco Izetbegović: “Se un giorno i serbi mi ammazzeranno, diranno che mi sono suicidato”, che ben rappresentavano lo stato d’animo dei musulmani di Bosnia, pieni di risentimento nei confronti di Nato e Onu.
L’articolo sulla strage era poi corredato da tre trafiletti. Il primo a riguardo dell’ennesima “guerra di responsabilità” scatenatasi sulla strage, con i serbi che richiedevano addirittura un’immediata commissione d’indagine, minacciando altrimenti di bloccare i convogli umanitari diretti in città. Il secondo trafiletto riportava poi le nuove deliranti dichiarazioni del nazionalista russo Žirinovski, secondo il quale in Bosnia l’Occidente aveva già fatto scatenare una terza guerra mondiale contro gli slavi, partendo dai serbi per arrivare in futuro ai russi. Il terzo trafiletto invece era una sorta di necrologio, che ripercorreva tutte le principali stragi di civili avvenute a Sarajevo in 22 mesi di guerra a partire dal maggio 1992.
Infine, a completare la terza pagina del “Corriere”, vi era una testimonianza raccolta da Augusto Pozzoli, che aveva incontrato un giovane serbo scappato da Zavidovići con la moglie musulmana per non arruolarsi nell’esercito serbo bosniaco.

Anche l’” Unità” dedicava molto spazio al tragico avvenimento riservandogli tre intere pagine, e pubblicando anche una grossa immagine con due cadaveri in prima pagina.
Tra la prima e la seconda pagina vi era inoltre un intervento del direttore Walter Veltroni, il quale ricordava che tra gli articoli che aveva letto sulla questione, molti sostenevano che non si poteva fare nulla se non aspettare la fine della guerra, e per motivare tale posizione decantavano i rischi di tutte le diverse soluzioni possibili. Ma, secondo Veltroni, se davvero non ci fosse stato più niente da fare se non guardare dal divano immagini strazianti, la nostra civiltà sarebbe stata solo “un delirio di luci sfavillanti che copre un paesaggio di egoismi”, mentre per il direttore dell’”Unità” era ancora possibile fare qualcosa.
Secondo lui le autorità internazionali avrebbero dovuto infatti recarsi a Sarajevo per imporre un cessate il fuoco, l’Onu avrebbe dovuto mandare più caschi blu come proposto dalle associazioni per la pace, ed infine anche la gente comune non avrebbe più dovuto lasciare soli pacifisti, volontari e giornalisti che rischiavano la vita nella guerra, ma avrebbe dovuto manifestare in piazza per la pace come aveva fatto per le altre guerre, e come invece fino ad ora non era successo, probabilmente perché era “difficile scegliere da che parte stare”.
Ma in questo momento, affermava Veltroni, era doveroso manifestare per far capire alla gente di Sarajevo che non era sola, ed ai governi che “nella nostra coscienza il dramma della Bosnia non sta all’ultimo posto”. Perché, concludeva Veltroni, “abbiamo il dovere di fare ciò che possiamo”, soprattutto perché fino a quel momento la voce della gente era mancata.

A pagina 3 dell’”Unità” iniziavano invece gli articoli sulla strage di Markale, con lo scritto dell’inviato a Spalato Mauro Montali, corredato da altre due foto strazianti delle vittime del massacro, simili a quella già riportata in prima pagina. Montali dunque riferiva di aver appreso rapidamente della strage grazie al comunicato di un radioamatore di Sarajevo e, dopo aver riportato i particolari su di essa e le dichiarazioni dei politici bosniaci, ricordava che le barbarie in Bosnia non terminavano purtroppo a Sarajevo.
Montali infatti, grazie all’aiuto di un croato che possedeva un ponte radio accoppiato con un telefono, aveva potuto ascoltare una telefonata che degli abitanti di Goražde erano miracolosamente riusciti a ricevere da dei parenti in Germania, e riferiva delle condizioni disumane a cui erano costretti i cittadini assediati dai serbi, che da settimane non venivano raggiunti dai convogli umanitari e che per sopravvivere si erano dovuti ridurre ai comportamenti più umilianti, come prostituirsi per delle sigarette da rivendere al mercato nero.

Sempre nella stessa pagina vi era poi un editoriale di Nuccio Ciconte, che dava per certa la mano dei serbi dietro alla strage e raccontava della difficoltà di colpire precisamente la piazza del mercato con una granata di mortaio. Essendo stato più volte inviato a Sarajevo, il giornalista ricordava infatti che la piazza era circondata da palazzi di almeno quattro piani, e proprio per questo motivo, essendo protetta dallo sguardo dei cecchini, veniva considerata “sicura”. Ciconte raccontava poi che la gente vi si recava a volte solo per sostare all’aperto dopo giorni rinchiusa negli scantinati, anche perché i banchi erano spesso vuoti e i prezzi proibitivi.
Il giornalista infine rammentava di come girando per la città di Sarajevo si potessero trovare ancora a breve distanza l’uno dall’altro i simboli di vari periodi storici e di religioni diverse, ma che ormai si stava perdendo memoria della convivenza, con la “pulizia etnica” che “marcia a vele spiegate”, distruggendo antichi palazzi e massacrando civili inermi.

Nella quarta pagina del quotidiano del Pds venivano poi pubblicati altri tre articoli sulla Bosnia.
L’articolo principale riguardava le trattative internazionali tra gli Stati Uniti e i paesi europei per un possibile intervento militare, e vi si sottolineava che la strage avrebbe fatto sentire “tutto il suo peso sul lavorio diplomatico”, non solo nei confronti dei serbi ma anche dei croati, la cui presenza militare in Bosnia stava spingendo già alcuni paesi, tra cui Germania e Italia, a richiedere per Zagabria le stesse sanzioni economiche già pendenti su Belgrado.
L’autore dell’articolo ricordava inoltre che il giorno successivo, 7 febbraio, si sarebbe svolta la riunione dei ministri degli Esteri europei, mentre il 9 a Ginevra si sarebbero riuniti gli stessi ministri dei paesi confinanti con la ex Jugoslavia, ma che in entrambi i casi sarebbe stato difficile raggiungere una posizione comune su come porre fine al conflitto. I due scritti successivi erano invece dedicati uno alla crisi politica dell’Hdz, il partito del presidente Tudjman, un cui deputato era stato immortalato dalla televisione nazionale con la divisa dell’esercito dell’autoproclamata repubblica croata della Herzeg-Bosna, smentendo così i tentativi dello stesso Hdz di negare un coinvolgimento militare croato in Bosnia.
L’altro articolo invece era uno scritto originale dell’”Unità” dedicato alla proposta, presentata con un comunicato da Arci e Associazione per la pace, di inviare i capi di Stato in Bosnia per ottenere un cessate il fuoco da cui far ripartire i negoziati di pace. Nel dettaglio la proposta, già citata da Veltroni nel suo editoriale, prevedeva che un “contingente diplomatico” si recasse di persona nei teatri di guerra per trattare con le autorità civili un cessate il fuoco, che si sperava sarebbe stato maggiormente rispettato rispetto a quelli più volte stipulati a Ginevra, mentre l’Onu avrebbe dovuto inviare un numero sufficiente di caschi blu per svolgere realmente le funzioni di interposizione tra le parti e di difesa delle popolazioni civili.

A pagina 5 del quotidiano del Pds venivano riportate infine le opinioni di otto figure di rilievo del panorama politico e culturale italiano, a riguardo delle diverse proposte che erano state presentate in quei giorni per porre fine al conflitto. Le opzioni possibili prevedevano: un intervento militare con truppe di terra; singoli e mirati bombardamenti aerei; la fine dell’embargo solo per i musulmani contestualmente all’invio di personalità politiche e diplomatiche direttamente sul suolo bosniaco.
Il giornalista ed ex diplomatico Sergio Romano riteneva che tutte le ipotesi presentate fossero irrealizzabili, e che l’unica soluzione fosse ormai quella di attendere una posizione di equilibrio sul territorio, che avrebbe poi permesso ai negoziati di Ginevra di risultare realmente efficaci.
Anche secondo Stefano Silvestri, il vice presidente dello Iai, l’Istituto di Affari internazionali, le soluzioni attualmente proposte non potevano mettere fine alla guerra, e l’unica possibilità era “tentare di rendere più visibile, anche militarmente, la presenza dell’Onu e, contemporaneamente, tenere in vita il tavolo negoziale a Ginevra”.
Marta Dassù, direttrice del Centro studi di politica internazionale, sosteneva poi che fosse ormai troppo tardi per un intervento militare risolutore, e che, data l’immobilità dell’Onu e la mancanza di volontà degli Stati Uniti, toccava agli europei “assumere un ruolo di primo piano nella guerra”, ma purtroppo secondo lei questi ultimi non sembravano in grado di farlo perché stavano ancora ridefinendo i rapporti atlantici in seguito al crollo dell’Urss.
Al contrario invece Stefano Bonanate, docente di relazioni internazionali all’Università di Torino, sosteneva che, anche se tardivo, l’intervento militare era un dovere morale di fronte a una crisi di tali proporzioni, e che l’Occidente aveva pensato di poter restare a guardare “anche perché in Bosnia non c’è il petrolio, la molla che ha fatto scattare l’intervento nel conflitto Irak-Kuwait”.
Il generale Carlo Jean, docente di studi strategici alla Luiss, era a sua volta del parere che non ci fosse un’opzione risolutiva per porre fine alla guerra, dato che nessuno dei tre eserciti sembrava volersi attestare sulle posizioni che occupava al momento, e che quindi l’unica possibilità credibile erano interventi aerei limitati in appoggio ai caschi blu.
Il filosofo Massimo Cacciari invece, appena eletto sindaco di Venezia, affermava che nessuno voleva realmente intervenire militarmente in Bosnia e che, non avendo fiducia nella capacità diplomatica europea di risolvere la guerra, riteneva che il conflitto si sarebbe risolto solo sul campo di battaglia.
Monsignor Antonio Riboldi, vescovo di Acerra, non riteneva invece prudente intervenire militarmente o inviare sul campo grandi personalità, ma sosteneva che il mondo civile doveva recidere ogni complicità con i “mercanti di morte”, arrestando cioè chi vendeva le armi per bloccare così la guerra.
L’ultimo commento era infine di don Antonio Bizzotto, fondatore dei “Beati i costruttori di pace” e promotore della marcia pacifista “Mir Sada”, il quale affermava che il vero problema era l’inazione politica e, mentre si opponeva chiaramente a interventi militari, sosteneva che la soluzione poteva venire solo da “un’opinione pubblica, una coscienza collettiva, non più disposta a sopportare questa situazione”.
Anche solo con questi otto brevi commenti, l’”Unità” metteva chiaramente in mostra la palese mancanza di comunione di intenti nel panorama italiano, e soprattutto la diffusa reticenza a sostenere l’invio di truppe in Bosnia.


”La Stampa” e “La Repubblica”
Anche “La Stampa”, come il “Corriere della Sera”, dedicava alla strage di Sarajevo ed alla situazione in Bosnia la seconda e la terza pagina dell’edizione del 6 febbraio, oltre all’articolo di apertura in prima pagina.
Di grande impatto emotivo e carico di attacchi politici risultava in praticolare l’articolo di fondo firmato da Enzo Bettiza. Lo scrittore dalmata iniziava il suo scritto constatando mestamente come gli orari della strage del mercato di Markale avessero combaciato con i riti europei del sabato, ossia pranzo, caffè e digestivo, sottolineando la totale differenza tra i due eventi che si svolgevano a poca distanza l’uno dall’altro, e di come le immagini strazianti fossero giunte tramite commentatori televisivi piangenti, che però eludevano il racconto più dettagliato dell’assedio che “da due anni stringe in una morsa sempre più sanguinaria l’agonizzante capitale di uno Stato smembrato ma riconosciuto dall’Onu e dall’Unione Europea”.
Bettiza si scandalizzava poi del fatto che in pochi avessero parlato della provenienza serba della bomba, concentrandosi solamente sulle vittime, e dimenticandosi che la grande “esplosione bosniaca”, dove tutti potevano svolgere il ruolo di persecutori e perseguitati, era stata provocata da Belgrado.
Bettiza ricordava poi che il governo della nuova entità islamica che era diventata la Bosnia risiedeva nel pieno centro di Sarajevo, e che i croati non avevano in città alcun interesse politico oltre a non possedere armamenti nelle vicinanze, quindi “la sola supposizione che la granata omicida del sabato” possa non essere serba “è priva d’ogni credibilità” anche perché erano stati i serbi a fare “di Sarajevo la Troia del ventesimo secolo”. L’accusa ai serbi dello scrittore proseguiva affermando che questi ultimi, nell’assedio di Sarajevo come negli altri che mantenevano in Bosnia, preferivano una lenta tattica di decimazione piuttosto che un assalto frontale, per svuotare le città della loro popolazione ed evitare così anche una vera reazione internazionale.
Bettiza infine sottolineava che questa era la vera tragedia di Sarajevo che l’Occidente si sforzava di non vedere, e concludeva con un durissimo attacco alle istituzioni politiche occidentali affermando che la città era stata offerta “dall’imbelle Europa […] alle fauci della Grande Serbia” ed era ormai diventata “non solo il simbolo del più sporco martirio balcanico ma della vergogna europea, della nullità americana, della farsa macabra dell’Onu che nella sua calcolata neutralità assomiglia a un’impresa di pompe funebri, che dà una mano all’aggressore per affossare più in fretta l’aggredito”.

Nella stessa pagina veniva poi pubblicato l’articolo sulle reazioni internazionali alla strage, in particolare su quelle statunitensi con Clinton che aveva chiesto urgentemente un’indagine dell’Onu per stabilire la responsabilità dell’attacco e dichiarava che non avrebbe escluso alcun tipo di azione contro i colpevoli. Subito dopo però venivano riferite anche le parole del ministro della Difesa britannico Malcolm Rifkind, il quale dubitava che vi sarebbe stato un intervento militare perché il resto del mondo non poteva inviare degli eserciti a risolvere una guerra civile, distinguendosi quindi per essere tra i pochi politici a considerare ancora il conflitto in Bosnia come una guerra interna.
L’ultimo articolo della pagina era poi riservato alle parole pronunciate da Papa Giovanni Paolo II, che secondo l’interpretazione della “Stampa” esortavano i politici “a valutare un’azione di forza in Bosnia”, congiuntamente a quelle del ministro degli Esteri italiano Andreatta, il quale aveva dichiarato che in base alle prime valutazioni dell’Unprofor la matrice dell’attacco non sembrava dubbia, e che avrebbe richiesto il giorno seguente ai colleghi dell’Unione europea di reagire concretamente, ma solo “in assenza di un credibile impegno ad arrestare gli attacchi su Sarajevo”.

Nella terza pagina del quotidiano diretto da Ezio Mauro invece era presente l’articolo di cronaca sulla strage del mercato firmato da Ingrid Badurina, la quale riportava anche le parole di Karadžić che sosteneva che fossero stati i musulmani a pianificare l’eccidio alla vigilia delle trattative, per far saltare i negoziati dandone colpa ai serbi. Ma Badurina riferiva anche che, mentre gli esperti dell’Onu non erano ancora in grado di stabilire da dove fosse partito il colpo mortale, avevano invece accertato che le 3 granate responsabili del massacro di dieci persone il giorno precedente erano arrivate dalle linee dei serbi, che anche in quella occasione avevano accusato i musulmani di essersi attaccati da soli.
La giornalista croata concludeva infine il suo articolo riportando, senza però commentarli, alcuni spezzoni dell’intervista rilasciata alla Cnn dallo stesso Karadžić, il quale proseguiva nella sua delirante accusa ai musulmani affermando che i serbi non avrebbero mai lanciato la granata, perché il loro esercito era disciplinato ed inoltre a suo parere le immagini mostravano chiaramente che si era trattato di un’esplosione e non di un bombardamento, ma che se per caso fosse stato accertato che erano stati i serbi, avrebbe chiesto la massima pena per i responsabili.

Insieme all’articolo di Badurina, in terza pagina veniva pubblicato anche uno scritto di Giuseppe Zaccaria, l’inviato a Spalato della “Stampa”.
Anche in questa occasione tra l’altro emergeva come Zaccaria, al momento di ricevere la notizia, fosse sicuramente nello stesso posto di Montali, l’inviato a Spalato dell’”Unità”. Questo perché, come già avvenuto per i loro reportage da Mostar del 4 febbraio, entrambi all’inizio del loro scritto riportavano il medesimo episodio del radioamatore di Sarajevo, che interrompeva il bollettino di aggiornamenti quotidiano per raccontare sconvolto il passaggio di ambulanze cariche di corpi, anche se il radioamatore in questione veniva chiamato da uno “Smece” e dell’altro “Semce”.
Zaccaria poi, come già Montali ma in maniera più approfondita, concentrava il suo articolo sulle informazioni recuperate tramite la radio, dove le voci degli abitanti di Sarajevo si sovrapponevano continuamente con notizie tragiche e richieste di aiuto, fino a che Zaim, un abitante di Goradze, era riuscito a prendere il segnale ed aveva iniziato a raccontare la sorte della sua città isolata da settimane e dimenticata dall’Occidente.
L’ultimo articolo della pagina era invece dedicato al servizio sui bambini di Mostar andato in onda la sera precedente nello speciale del “Tg1” sulla guerra in Bosnia. La notizia risiedeva nel fatto che si trattava del servizio che i tre collaboratori triestini della Rai stavano preparando nel momento in cui erano stati uccisi da una granata il 28 gennaio.

La stessa “Repubblica” presentava in prima pagina un editoriale del proprio direttore Eugenio Scalfari, come aveva fatto anche l’”Unità” con Walter Veltroni. Nel suo articolo Scalfari però non nominava mai Sarajevo o la strage del mercato, dal quale evidentemente traeva spunto il suo intervento, ma analizzava la situazione in cui si era venuta a trovare la Bosnia, e già dal titolo si poteva intuire la sua posizione sul conflitto, dato che recitava “Che l’Europa si muova…”.
Il direttore di “Repubblica” infatti, nonostante ritenesse con una certa superficialità che le cause del “mattatoio” in atto fossero da ricercare principalmente nelle caratteristiche della ex Jugoslavia, ossia “odio atavico, abitudine secolare ad uccidere, inesistenza di classi dirigenti, fanatismo etnico, intolleranza religiosa, ignoranza e miseria”, riconosceva che gli interessi e gli egoismi delle grandi potenze avevano avuto un ruolo nefasto, anche quando avevano riconosciuto Slovenia, Croazia e Bosnia, creando le premesse per quello che sarebbe in seguito diventato un genocidio.
Scalfari poi elencava gli ulteriori errori commessi dalla comunità internazionale, come gli inutili divieti mai realmente imposti e le sanzioni mai applicate, e soprattutto l’invio di caschi blu senza un mandato adeguato, che aveva finito per trasformarli in ostaggio dei serbi. A questo punto dunque, secondo il fondatore di “Repubblica”, l’Occidente avrebbe dovuto intervenire, perché “una latitanza così prolungata di fronte al massacro sistematico che si consuma sotto gli occhi delle televisioni di tutto il mondo” era “moralmente rivoltante e politicamente intollerabile”.
Ricordando poi l’intervento americano in soccorso del blocco di Berlino tra il 1948 e il ’49, Scalfari sosteneva che “con caratteristiche assai diverse, ma per analoghe ragioni morali e politiche bisogna ora mettere in opera un’operazione analoga a Sarajevo”, ed auspicava che la Nato iniziasse a bombardare le postazioni serbe, mentre l’Europa avrebbe dovuto mandare soldati in appoggio ai caschi blu, le cui regole d’ingaggio e i cui armamenti dovevano essere adeguati dall’Onu alle nuove esigenze.
Scalfari concludeva poi affermando che se l’inazione occidentale fosse proseguita, allora sarebbe stato meglio ritirare i soldati dell’Onu, perché sarebbero rimasti degli “inermi testimoni sul campo”, che spesso facevano quello che fanno i soldati disoccupati, e l’Europa non aveva certo “bisogno di aggiungere ad una latitanza divenuta ormai vergognosa, una presenza per molti aspetti disdicevole”.

Sempre in prima pagina “Repubblica” riportava anche una breve testimonianza raccolta dal suo inviato a Sarajevo, Bernardo Valli, che aveva intervistato un collega dell’agenzia britannica “Reuters”, il quale aveva assistito alla strage e ne rievocava i momenti più terribili.
Gli articoli sulla Bosnia di “Repubblica” proseguivano poi a pagina 3 con un trafiletto che riportava unicamente le parole pronunciate dal Papa la sera precedente a Radio Vaticana, e con un articolo di Andrea Tarquini sulle reazioni internazionali alla strage, dove, oltre a riportare le dichiarazioni dei politici occidentali, si delineava più chiaramente rispetto agli altri quotidiani come esistessero ormai due fazioni nell’Alleanza Atlantica, con “Usa, Italia, Belgio, Germania decisi a tutto pur di arrestare il genocidio bosniaco, Gran Bretagna e Francia aggrappate a una linea scettica e prudente”.

A pagina 4 invece vi erano invece due articoli dedicati alla strage del mercato di Markale.
Nel primo si riferivano le dichiarazioni dei politici bosniaci, come quelle del comandante del contingente Onu in Bosnia Michael Rose, ma anche quelle dei molti esponenti del parlamento dei serbi di Bosnia, che accusavano i musulmani, come già aveva fatto Karadžić, di essere i veri autori del massacro.
Nel secondo articolo invece, Stefania Di Lellis presentava un’intervista telefonica a due giornalisti italiani in quel momento a Sarajevo. Il primo era Paolo Liguori di “Studio Aperto”, il quale, sconcertato dai corpi straziati che aveva visto, chiedeva un intervento per fermare la “mattanza” e denunciava che a morire in città erano soprattutto donne, vecchi e bambini, non i soldati nelle trincee. Un altro inviato contattato telefonicamente era Flavio Fusi del “Tg3”, anche lui sconvolto da un conflitto “dove non ci sono scontri […] poi improvvisamente, però, senti un colpo più forte degli altri e ti ritrovi sotto una pioggia di sangue a raccontare una guerra che non sai come spiegare”.
Entrambi i giornalisti dichiaravano poi di sentirsi anche inutili nel continuare a trasmettere ininterrottamente immagini così strazianti senza sortire alcun effetto, ma Liguori riconosceva che “forse, l’unica cosa cui potrà servire continuare a informare è togliere alla gente comune, ai capi di Stato, alla diplomazia l'alibi dell'ignoranza. Non ci si potrà trincerare dietro i “Non sapevo”, “Non immaginavo” come si fece per il genocidio degli ebrei dopo la fine del Terzo Reich. Oggi tutti sanno quello che sta succedendo nella ex-Jugoslavia".
L’ultimo articolo sulla Bosnia pubblicato da “Repubblica” il 6 febbraio era invece un’interessante analisi di Mario Tedeschini Lalli sulla situazione militare nella ex repubblica jugoslava, che conteneva anche una descrizione delle nuove figure inviate dell’Onu in Bosnia che avevano la possibilità di richiedere l’intervento aereo della Nato, ossia il giapponese Akashi, rappresentante personale del segretario generale Boutros Ghali, e il britannico Michael Rose, comandante delle truppe Unprofor in Bosnia.


“Il Giornale”, ”Secolo d’Italia”, “L’Osservatore Romano” e “Il Popolo”

Sulle pagine del “Giornale” vi erano meno articoli dedicati alla strage di Markale rispetto alle altre principali testate nazionali, ma con toni decisamente più sensazionalistici.
Già in prima pagina infatti il quotidiano, diretto da poche settimane da Vittorio Feltri che aveva sostituito Montanelli dopo i suoi contrasti politici con Silvio Berlusconi, intitolava l’articolo di apertura con la semplice frase: “L’Onu predica, i serbi sparano”. Frase che però, nella sua semplicità, riportava anche esplicitamente la convinzione che fossero stati i serbi gli autori della strage, mentre le indagini dell’Onu non avevano ancora potuto provare la loro colpevolezza. Difatti nell’articolo sottostante, che introduceva i servizi presenti all’interno del quotidiano, si specificava che la granata era stata “presumibilmente sparata da un mortaio serbo”.

In prima pagina iniziava anche un editoriale firmato da Renato Farina, che si dichiarava sgomento di fronte al continuo ripetersi di massacri e stragi, spesso con i bambini coinvolti. Il giornalista però, pur dichiarando inizialmente di non sapere quale reazione proporre, era certo che esistesse un dovere morale connesso al quinto comandamento che obbligava ad agire, anche con la forza, per evitare nuove stragi.
Farina prendeva poi come spunto la richiesta del Papa, che aveva domandato ai fedeli di pregare e digiunare per la Bosnia e soprattutto ai potenti di agire, per constatare che nessun partito italiano aveva veramente accolto le sorti della Bosnia nel suo programma, e questo secondo il giornalista semplicemente perché i bosniaci non votavano in Italia.
La conseguenza, scriveva Farina, era che nessuno agiva ma tutti adoperavano “candeggina […] per sbiancarsi l’anima”, sia il ministro che chiedeva il Nobel per le vittime, sia il filosofo Sergio Quinzio che dalle pagine del “Corriere” invitava il Papa a recarsi a Sarajevo, magari “per morire ad imitazione di Cristo in croce”. Farina sosteneva quindi in conclusione del suo scritto, che non bisognava pensare a costruire postumi “monumenti a degli eroi”, ma a come salvare bambini e genitori di Bosnia, “anche con la forza”.

La pagina 12 del “Giornale” era poi interamente dedicata alla Bosnia, e l’articolo riservato alla strage del mercato di Markale presentava un altro titolo ad effetto, simile a quello proposto in prima pagina, che recitava: “Sarajevo alla fame annega nel sangue”.
Nel testo poi Elo Foti, l’autore dell’articolo, ritornava sulla questione della paternità dell’attacco, riferendo che il comandate dell’Onu in Bosnia generale Michael Rose aveva subito dichiarato che la granata era stata lanciata dai serbi, per poi ritrattare le sue affermazioni dopo che il generale serbo bosniaco Milovanović aveva minacciato di bloccare i convogli umanitari se non fosse partita un’inchiesta dell’Onu al riguardo. Foti poi, nella descrizione della strage, si soffermava molto sui particolari più atroci, sottolineando ad esempio che “La piazza era un carnaio […] chi non gemeva era morto, chi gemeva grondava sangue. Almeno otto cadaveri erano talmente mutilati da renderne impossibile non solo il riconoscimento, ma l’individuazione del sesso. Molti dei feriti guardavano inebetiti un loro braccio o una loro gamba spappolati”.

Sempre nella stessa pagina del quotidiano diretto da Feltri vi era poi un trafiletto con elencate le peggiori stragi avvenute a Sarajevo dall’inizio del conflitto, trafiletto simile a quello presentato dal “Corriere”, ma vi era in aggiunta anche un articolo quantomeno curioso, dove Luciano Gulli riportava una breve intervista a Mladen, un quattordicenne bosniaco arrivato a Legnano nell’agosto del 1993 per essere operato in seguito a delle ferite causate da una granata, il quale dopo la terribile strage di Markale dichiarava che avrebbe voluto tornare a Sarajevo per vendicarsi ed “ammazzare almeno tre, quattro persone. Non m’importa se toccherà a donne e bambini.”.
L’articolo però, pur riportando delle frasi così forti e drammatiche, non conteneva un commento sulle dichiarazioni, e non esplicitava neanche chiaramente se l’intenzione del giornalista fosse quella di mostrare a che atteggiamenti poteva spingere la guerra o se mirasse invece a sottolineare il tanto citato “odio atavico” che caratterizzava le popolazione balcaniche.
Inoltre Gulli, forse volutamente, si dimenticava di sottolineare che si trattava di un quattordicenne che aveva vissuto due anni di assedio ed era sopravvissuto ad un bombardamento, con ovvi riflessi psicologici sulla sua giovane personalità.
La pagina del “Giornale” si concludeva poi con un articolo sul deterioramento dei rapporti tra Germania e Croazia, fino ad allora sempre appoggiata da Bonn a partire dal riconoscimento della sua indipendenza, e con un trafiletto sulle dichiarazioni del premier bosniaco Silajdžić, che in un’intervista effettuata da Paolo Liguori a Sarajevo aveva minacciosamente ricordato la vicinanza della guerra al suolo italiano.

Anche il “Secolo d’Italia” riservava l’apertura in prima pagina alla strage di Sarajevo, e pubblicava un editoriale di Paolo Toppi che terminava a pagina 2 significativamente intitolato “Ma se in Bosnia ci fosse il petrolio…”.
Toppi iniziava quindi il suo scritto accusando l’Europa di essere rimasta immobile di fronte alle ripetute stragi della guerra in Bosnia, un paese secondo il giornalista con un “miscuglio di fedi ed etnie difficilmente conciliabili fra di loro” dove la spinta “all’identificazione del proprio gruppo di appartenenza” era “più forte di qualsiasi accordo diplomatico”.
Toppi scriveva che per questo vi era la guerra nei Balcani, e che proprio per questo “il mondo se ne era fregato”, mentre aggiungeva che se ci fosse stato del petrolio il conflitto sarebbe già finito con un intervento occidentale. Il giornalista del “Secolo” concludeva poi il suo intervento affermando che occorreva dire basta, per non lasciare che l’orrore diventasse solo il “fantasma squallido dell’impotenza del mondo civile e del suo egoismo”.

Il quotidiano del Msi presentava poi 3 articoli sulla strage di Sarajevo nella sezione Esteri.
L’articolo di apertura riportava un resoconto della strage simile agli altri quotidiani italiani, e sottolineava poi di come alcuni caschi blu dell’Onu, che erano giunti rapidamente sul posto per aiutare i soccorsi, fossero stati allontanati dalla folla inferocita che li riteneva in qualche modo corresponsabili dell’accaduto.
Il secondo scritto riferiva invece di come la Bosnia sarebbe stata al centro della riunione dei ministri degli esteri europei che si sarebbe tenuta il giorno successivo, 7 di febbraio, a Bruxelles, riunione che era inizialmente stata convocata per discutere sulla possibilità di estendere le sanzioni internazionali in vigore contro la Serbia anche nei confronti della Croazia, colpevole di aver inviato truppe dell’esercito regolare in Bosnia a combattere a fianco dei croati dell’Erzegovina. Il terzo articolo infine era un riepilogo dei massacri avvenuti a Sarajevo del tutto simile a quelli del “Giornale” e del “Corriere”.

L’” Osservatore Romano” invece, a differenza degli altri quotidiani, dedicava un solo articolo alla strage di Sarajevo, posizionandolo in apertura della prima pagina. Il testo poi era accompagnato da una fotografia che raffigurava un uomo con in braccio un bambino ferito, senza quindi cadaveri sanguinanti come quelle utilizzate dalle altre testate, e sopra la quale veniva riportata la frase “Non siete abbandonati. Siamo con voi. Sempre più saremo con voi!”.
Il quotidiano della Santa Sede era stato però pubblicato come sempre il pomeriggio precedente con la data del 6 febbraio, e quindi l’articolo sulla strage del 5 febbraio non riportava alcun aggiornamento sugli avvenimenti delle ore successive allo scoppio degli ordigni, in quanto riferiva che i morti erano 31 quando tutti gli altri quotidiani, pur riportando cifre differenti, citavano almeno il doppio delle vittime. Un altro particolare che confermava il momento in cui era stato scritto l’articolo era la deduzione secondo la quale, dopo la notizia che i tecnici dell’Onu avevano stabilito che la strage di venerdì 5 febbraio era stata causata dai serbi, “anche sull’origine di questo nuovo massacro non sembrano esserci dubbi”, ma non venivano riferite le smentite dell’Onu e la decisione di avviare una commissione d’inchiesta.
L’articolo riportava quindi pochi dettagli sulla strage del mercato di Markale, riferendo invece altre notizie collegate ad essa, come le reazioni internazionali e le nuove richieste di aiuto dei politici bosniaci, ed anche gli aggiornamenti sulla situazione militare e sugli assedi in atto nel territorio bosniaco.
Sull’”Osservatore” venivano invece pubblicate separatamente le notizie sulle possibili sanzioni dell’Onu nei confronti della Croazia, di cui si riferiva di come avesse prontamente dichiarato che, nel caso in cui tali sanzioni fossero realmente entrate in vigore, avrebbe scatenato un nuovo conflitto contro i miliziani serbi che si trovavano in territorio croato.

Sulle pagine del “Popolo” invece la notizia del massacro veniva presentata in maniera del tutto diversa rispetto agli altri quotidiani, questo perché non uscendo la domenica, la testata del Partito Popolare Italiano appena sorto dalle ceneri della Democrazia Cristiana, pubblicava gli articoli relativi alla strage solo lunedì 7 febbraio, e il testo in prima pagina non era stato neanche posto in apertura.
Lo scritto in questione era un editoriale dove un giornalista del “Popolo” si dichiarava ormai senza parole e impotente di fronte alle terribili immagini provenienti dalla Bosnia, per poi, premettendo che stava per fare considerazioni semplicistiche, chiedersi per quale motivo in Kuwait e Somalia si era deciso di intervenire subito mentre in Bosnia non si era ancora fatto niente. A questo punto il giornalista affermava di potersi dare solo l’unica risposta che era riuscito a trovare, ossia che “sarà pure facile, forse anche demagogico” ma “lì si è intervenuto perché c’era il petrolio”.

Il “Popolo” dedicava poi tutta la sedicesima pagina alla strage di Markale, iniziando con un articolo sulle dinamiche della tragedia, dove erano contenute anche le informazioni sulle reazioni internazionali e dove si specificava che altri caccia americani erano stati spostati dalla base tedesca di Ramstein a quella di Aviano, facendo presumere quindi secondo il quotidiano un possibile attacco della Nato ai serbi, qualora fosse stata provata la loro responsabilità.
Un altro articolo era riservato invece alle intenzioni del ministro degli Esteri italiano Beniamino Andreatta, il quale puntava a rappacificare croati e musulmani organizzando un incontro a Roma tra Tudjman e Izetbegović, e affermava che avrebbe chiesto all’imminente riunione dei ministri europei di prendere “misure concrete”, sollevando “con fermezza” il problema delle popolazioni civili di Sarajevo. Il testo riportava poi in calce la dichiarazione completa di Andreatta diffusa dalla Farnesina.
Infine l’ultimo scritto era dedicato alle dichiarazioni fatte dal Papa a Radio Vaticana durante il rosario di sabato sera, poche ore dopo la strage del mercato.


Conclusioni

Anche con questa tragedia il cosiddetto “effetto Cnn” mostrò tutta la sua influenza, ed infatti, quando le immagini dei corpi dilaniati nella strage fecero il giro del mondo, spinsero parte dell’opinione pubblica internazionale a richiedere ancora una volta l’intervento contro i serbi.
A New York allora i rappresentanti presso l’Onu di Stati Uniti, Gran Bretagna e Francia, riuscirono a spingere il 6 febbraio Boutros Ghali a richiedere alla Nato l’intervento aereo contro le postazioni di artiglieria attorno a Sarajevo. Non essendo però l’Onu riuscita a provare la responsabilità dei serbi nel massacro, dietro proposta dei francesi si decise di far precedere agli attacchi aerei, già operativamente pronti da gennaio, un nuovo ultimatum ai serbi, che avrebbero dovuto smilitarizzare una zona perimetrale di venti chilometri attorno a Sarajevo, o porre le armi pesanti sotto il controllo dell’Unprofor, se volevano evitare di essere bombardati.
Nella notte tra il 9 e il 10 di febbraio il Consiglio dell’Alleanza atlantica dopo una lunga seduta inviò quindi ufficialmente l’ultimatum, anche se, per superare l’opposizione britannica a tale iniziativa, l’ultimatum fu mandato in egual misura a serbi e musulmani, mentre venne esclusa da tale disposizione la cittadina di Pale, capitale dell’autoproclamata Repubblica serba di Bosnia distante meno di venti chilometri da Sarajevo.

Tra le pagine della stampa italiana intanto, si erano distinti “Giornale”, “Stampa” e “Unità”, scrivendo chiaramente che, anche se l’Onu non aveva dimostrato la paternità dei serbi sulla strage, non vi potevano essere dubbi sulle loro colpe.
Sul “Giornale” questa opinione veniva espressa in un editoriale da Carlo Maria Santoro, il quale, senza concentrarsi sul massacro di Markale, ricordava comunque all’opinione pubblica che tutte le colpe partivano ad Belgrado, e che cercare “di attribuire ai croati, e talvolta anche ai bosniaci, che reattivamente compiono atti di guerra in un contesto dove, per codardia e indifferenza dell’Occidente valgono solo le leggi della forza, una responsabilità commisurata a quella dei serbi, vuol dire cadere nella trappola di credere che le guerre di fazione siano solo il prodotto di deviazioni delle coscienze, ovvero di primitivismo culturale e politico”.
Sulla “Stampa” era invece Enzo Bettiza a ricordare le colpe di Belgrado e dei serbi di Bosnia, come tra l’altro aveva già fatto duramente in un articolo del 6 febbraio. In questa occasione lo faceva invece con una lettera aperta al giornalista Demetrio Volcic, reo secondo lo scrittore di Spalato di non aver mai nominato durante il suo telegiornale, “nemmeno in forma dubitativa”, la responsabilità dei serbi nel massacro, dando ”voce e omertà” alla “iniquità imbelle dell’occidente”.
Per l’“Unità” infine era Nuccio Ciconte, più volte inviato a Sarajevo, a ricordare che dall’inizio della guerra i serbi avevano compiuto qualsiasi atrocità per poi dare la colpa ai musulmani e croati, e che se anche questa guerra più delle altre gli aveva insegnato di come tutto fosse possibile, in ogni caso una strage anonima avrebbe fatto più comodo alle cancellerie occidentali, evitandogli così l’obbligo di intervenire una volta per tutte nel conflitto.

Le reazioni dei quotidiani italiani alla strage furono quindi del tutto simili tra loro in quanto allo sdegno provato nei confronti del peggior massacro perpetrato a Sarajevo dall’inizio del conflitto, ma si differenziarono in parte sulle modalità con le quali venne presentata la notizia, e soprattutto sulle prese di posizione a riguardo di una possibile reazione dell’Occidente.

Il “Corriere della Sera” non prendeva infatti apertamente posizione su un eventuale intervento militare, ma dagli articoli pubblicati emergeva la sua sostanziale contrarietà ad esso, mentre con le parole di Franco Venturini il quotidiano di via Solferino invitava i cittadini italiani a prendere atto della propria impotenza e a ricordarsi dell’iniziale inattività dell’Occidente, perché solo in tal modo si sarebbe potuto in futuro tentare di far rifiorire gli ideali democratici d’Europa.

Sull’“Unità” invece il direttore Veltroni si schierava decisamente a sostegno della necessità di agire, ma con tre strategie diverse dall’intervento militare. Per Veltroni infatti andavano inviate alcune autorità politiche internazionali a Sarajevo per negoziare cessate il fuoco, aumentando i caschi blu sul campo e portando nel contempo le persone nelle piazze a manifestare per la pace, per far capire al governo che la società non rimaneva impassibile di fronte alle tragedie.
Sulle pagine dell’”Unità” emergeva poi una certa tendenza a spettacolarizzare il dramma con immagini ampie e crude, ma veniva presentato anche un interessante spaccato del paese con le opinioni di 8 personaggi eminenti su come risolvere il conflitto, quasi tutte contrarie all’intervento militare ma tutte diverse tra loro.

Anche Scalfari su “Repubblica” prendeva una posizione netta e, a differenza di “Corriere” e “Unità”, chiedeva esplicitamente un intervento armato nel conflitto, anche se analizzava le caratteristiche del conflitto in corso partendo da considerazioni storiche superficiali.

La linea della “Stampa” emergeva invece con un duro attacco di Bettiza contro l’immobilità delle istituzioni politiche internazionali dell’Occidente e contro le responsabilità dei serbi, e seppur senza mai dichiararla esplicitamente, la sua propensione ad intervenire emergeva chiaramente dalle sue parole.

Il “Giornale” invece si differenziava dagli altri quotidiani per i toni estremamente sensazionalistici e antiserbi dei suoi titoli, e presentava un editoriale di Renato Farina favorevole all’intervento oltre che un articolo ambiguo, e altrettanto sensazionalista, riguardante un ragazzino bosniaco rifugiato in Italia che dichiarava di voler tornare in Bosnia per vendicarsi della strage.

L’“Osservatore Romano” presentava invece la copertura meno soddisfacente della strage di Sarajevo, e riportava solo poche e frammentarie informazioni.
Il “Secolo d’Italia” e il “Popolo” infine, che anche per questioni di spazio assieme all’“Osservatore Romano” dedicavano meno scritti alla notizia, ritenevano invece entrambi che l’Occidente non fosse ancora intervenuto in Bosnia perché non vi erano interessi economici, come la presenza del petrolio, che invece avevano spinto ad intervenire in altri conflitti. A differenza del “Popolo” però, il quotidiano del Msi chiedeva invece chiaramente un intervento militare.


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