Crimini di guerra


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Un pezzo nascosto di storia italiana del Novecento
“Mir Sada”, la marcia verso Sarajevo dei pacifisti europei
(Agosto 1993)


Il conflitto nell’estate del 1993

Seguendo la linea tracciata dal nuovo “Piano d’azione” presentato il 22 maggio, il Consiglio di sicurezza dell’Onu approvò il 4 giugno 1993 la risoluzione 836. Con tale risoluzione, il Consiglio tentava di rendere realmente inaccessibili agli eserciti in lotta le zone di sicurezza precedentemente proclamate in territorio bosniaco, autorizzando per la prima volta i caschi blu all’uso della forza e la Nato all’utilizzo dell’aviazione.

Entrambe le azioni però, sarebbero state possibili solo dietro richiesta del Segretario generale dell’Onu, ed anche in questa occasione, come sottolinea lo storico Pirjevec, il linguaggio utilizzato nella risoluzione risuonava “volutamente contraddittorio e aperto a diverse interpretazioni”, e infatti il segretario dell’Onu Boutrous Ghali “non se la sentì di contrastare la volontà delle grandi potenze” che temevano per la sicurezza dei loro soldati presenti sul campo, “e interpretò dunque la Risoluzione 836 nella maniera più riduttiva possibile. Egli sostenne infatti che il Consiglio aveva indubbiamente deciso di “garantire il rispetto delle “aree di sicurezza” […] ma ribadì però che l’UNPROFOR aveva la facoltà di usare la forza solo a propria difesa, togliendo così alla risoluzione gran parte del suo potere deterrente”.

Il 16 giugno 1993, invece, il Presidente croato Tudjman, in seguito a dei colloqui avuti con Milošević a Ginevra, propose in quella stessa sede un piano di partizione della Bosnia in tre stati etnici, che sarebbero stati legati tra loro da un patto confederale ma con un potere centrale quasi nullo. Nella nuova Repubblica ai musulmani sarebbe andato meno del 20% del territorio, mentre i tre stati avrebbero avuto in seguito la possibilità di far valere il diritto all’autodeterminazione.
Ovviamente, il piano trovò il consenso di Karadžić e la netta opposizione di Izetbegović, ma sancì anche l’inizio di una vera e propria collaborazione militare tra croati e serbi nel territorio bosniaco.

Sorprendentemente al summit di Copenaghen di fine giugno, nel quale si erano riuniti i capi di Stato e di governo della Comunità europea, nel tentativo di porre fine al conflitto fu adottata la proposta di Tudjman.
Fu inoltre accettato anche il principio dell’autodeterminazione, ma in questo modo ai musulmani sembrò che si volesse consentire lo smembramento della Bosnia, avallando le conquiste territoriali dei serbi e il progetto di costituire una “Grande Serbia” ed una “Grande Croazia”.

La presa però della cittadina bosniaca di Maglaj il 2 luglio da parte di forze croate e serbe, con gli atroci resoconti che ne seguirono, fece mutare rapidamente opinione alla leadership internazionale.
Alla riunione del G7 di Tokyo i rappresentanti dei sette paesi più industrializzati, di cui ben 4 avevano partecipato anche al summit di Copenaghen, emisero un comunicato nel quale sostenevano “che non avrebbero approvato alcuna soluzione territoriale imposta con la forza ai musulmani”. Inoltre, mentre la politica internazionale dei paesi occidentali continuava a caratterizzarsi per brusche inversioni di rotta, diversi Stati membri dell’Organizzazione della cooperazione islamica, capitanati dall’Iran, proponevano ripetutamente all’Onu l’invio di soldati in Bosnia, ma vedevano respinte le loro offerte in quanto le Nazioni Unite non volevano coinvolgere nel conflitto Stati con “interessi particolari”, contribuendo così ad inasprire i rapporti fra Stati cristiani e musulmani.

A Sarajevo nel frattempo la situazione era diventata sempre più critica da quando i serbi erano riusciti ad interrompere le forniture di gas, elettricità ed acqua potabile. In città inoltre spadroneggiavano le bande paramilitari di “Caco” e “Ćelo”, due protetti dell’ex capo dell’esercito Halilović, tollerati dalle autorità musulmane in quanto svolgevano anche un ruolo primario nella difesa cittadina, ma la cui attività criminale in droga, prostituzione e mercato nero aveva finito per coinvolgere anche politici e militari, come pure i caschi blu dell’Onu.
Basandosi su tale drammatica situazione, ed in seguito ai successi militari di Mladić, che verso la fine di luglio era riuscito a tagliare i collegamenti tra Sarajevo e Goražde, Izetbegović si lasciò infine convincere dalla Presidenza collettiva a partecipare ai nuovi colloqui di pace di Ginevra e ad accettare la tripartizione della Bosnia prevista dal piano di Owen e Stoltenberg, che ricalcava la precedente proposta di Tudjman.
I colloqui di pace iniziarono il 27 luglio ma, mentre questi erano in corso, i serbi approfittarono dell’indebolimento delle difese di Sarajevo causato dalla necessità dell’esercito governativo di inviare truppe contro i croati in Erzegovina, e riuscirono nei primi giorni di agosto a conquistare i monti Igman e Bjelašnica, chiudendo così definitivamente ogni via di accesso alla città.Per i cittadini di Sarajevo infatti, l’unica strada ancora percorribile per ricevere armi ed approvvigionamenti senza la mediazione dell’Onu era un tunnel che partiva dalle pendici del monte Igman, per sbucare dopo 675 metri alla periferia della città, passando al di sotto dell’aeroporto controllato dall’Onu.
L’alta probabilità però di un’imminente sconfitta dei musulmani, unita alle strazianti immagini televisive provenienti da tutta la Bosnia, spinsero Clinton a prendere nuovamente in considerazione l’idea di bombardare le postazioni dei serbi attorno a Sarajevo, a meno che quest’ultimi non avessero restituito il controllo dei due monti, fondamentali per la sopravvivenza della città.

Nonostante i membri dell’Alleanza atlantica avessero deciso a Bruxelles il 2 agosto di adottare la linea statunitense, Boutrous Ghali si oppose al principio per il quale gli obiettivi e le tempistiche degli interventi venissero decisi dalla Nato. Il segretario dell’Onu quindi, grazie al sostegno di Francia ed Inghilterra, riuscì a far approvare dal Consiglio della Nato riunitosi nuovamente il 9 agosto, delle diverse modalità di attuazione degli interventi, le quali prevedevano sostanzialmente che qualsiasi azione militare, prima di essere messa in pratica, avrebbe dovuto ottenere l’assenso preventivo del comandante dell’Unprofor, oltre a quello delle forze Nato.
Questa nuova procedura, denominata della “doppia chiave”, come quella utilizzata nelle operazioni di attivazione degli ordigni nucleari durante la Guerra fredda, avrebbe in seguito influenzato drasticamente il corso della guerra, deteriorando i rapporti tra le due organizzazioni. Inizialmente però venne accolta favorevolmente, soprattutto perché il 18 agosto la prima vera esercitazione degli aerei Nato sopra i monti occupati dai serbi bastò a far sì che quest’ultimi cedessero definitivamente il controllo dell’area ai caschi blu francesi.
In realtà si trattò anche di un ritiro strategico per evitare che i colloqui di pace di Ginevra, nei quali era prevista la tripartizione del paese favorevole ai serbi, venissero annullati a causa dell’assenza di Izetbegović, che li aveva abbandonati il 2 agosto “annunciando che non sarebbe tornato, se gli aggressori non si fossero ritirati da Igman e Bjelašnica”. Per giunta, nonostante le condizioni di Sarajevo fossero migliorate con la riapertura delle vie di approvvigionamento, il malumore serpeggiava tra la popolazione della città, in quanto tali strade si trovavano ora sotto il controllo dell’Onu e non potevano quindi essere utilizzate per rifornirsi di armi e munizioni, e anche perché la vicinanza dei caschi blu alle linee serbe assicurava di fatto a queste ultime di essere al riparo da eventuali bombardamenti aerei della Nato.


I “Beati i costruttori di pace” e la marcia su Sarajevo

In Italia intanto nei primi mesi del 1993 l’associazione pacifista “Beati i Costruttori di Pace”, fondata nel 1985 a Padova dal prete Don Albino Bizzotto, aveva acquisito sempre più visibilità da quando nel dicembre del 1992 aveva organizzato una manifestazione pacifista da Ancona a Sarajevo, riuscendo ad interrompere simbolicamente l’assedio della città facendovi entrare 496 persone, tra le quali anche i vescovi Tonino Bello e Luigi Bettazzi.
Sull’onda di questo primo successo dunque, i “Beati i Costruttori di Pace”, assieme ai laici francesi di “Equilibre” e ad altri associazione italiane ed europee, decisero di organizzare per l’agosto del 1993 una nuova marcia pacifica verso la città assediata, marcia che venne denominata “Mir Sada”, ossia “Pace Adesso” in serbo bosniaco. Il programma della nuova iniziativa prevedeva che alcune migliaia di persone provenienti da Europa, Stati Uniti e Giappone, sarebbero dovute partire il 2 agosto da Spalato per arrivare a Sarajevo in una decina di giorni, con lo scopo di portare aiuti e tentare di frapporsi per qualche ora tra le parti in guerra.

L’intensificarsi però del conflitto militare sul campo, con le tre parti in lotta che tentavano di conquistare più territorio possibile prima che si concludessero le trattative in corso a Ginevra e con i serbi che stringevano l’assedio su Sarajevo, bloccò già il 6 di agosto nei pressi di Prozor le poche centinaia di pacifisti che erano effettivamente riusciti a partire.
Nei giorni successivi poi alcune decine di volontari raggiunsero ugualmente ma a titolo individuale la capitale bosniaca, mentre il grosso della carovana si mosse in direzione di Mostar, dove riuscì solamente a sostare di fronte alla cattedrale cattolica per alcuni minuti prima di essere costretta ad allontanarsi, dato che la presenza dei pacifisti non era servita a interrompere gli scontri.

L’iniziativa promossa dai “Beati i costruttori di pace” quindi non raggiunse gli obiettivi che si era prefissa, cioè entrare pacificamente in Sarajevo e fermare almeno temporaneamente i combattimenti.
Nonostante però tra i principali organizzatori dell’unico vero tentativo della società civile europea di frenare il conflitto bosniaco ci fossero alcune associazioni italiane, diversi quotidiani del paese trascurarono vistosamente la marcia dei pacifisti, anche se nel frattempo si curarono di riportare dettagliatamente l’evolversi delle contrattazioni di pace in corso a Ginevra, come anche dell’escalation del conflitto militare.


Il comportamento dei quotidiani: “Corriere della Sera” e “La Repubblica”

Sul “Corriere della Sera” in tutto il mese di luglio, nonostante venisse pubblicato un articolo sulla Bosnia praticamente ogni giorno, non si era mai accennato alla marcia per la pace programmata per il mese successivo.
Il “Corriere” poi nei primi giorni di agosto dava ampi spazi alla situazione bosniaca nelle sue pagine, con molti articoli degli inviati nei paesi balcanici come dei corrispondenti da Washington e Ginevra, con i quali riferiva costantemente gli aggiornamenti sulle trattative di pace in corso in Svizzera e sugli sviluppi nella politica estera americana, come anche del rapporto tra Nato e Onu.

Solo il 3 di agosto infine il quotidiano di via Solferino riportava la notizia, all’interno di un articolo sui contrasti tra Clinton e l’Onu a riguardo dei possibili bombardamenti della Nato, che domenica 1 agosto più di mille italiani erano partiti da Ancona per sbarcare a Spalato il giorno successivo, con diversi automezzi carichi di viveri e medicinali. Nel testo si riferiva poi che i volontari italiani si erano congiunti con altri pacifisti europei per dare vita a una marcia verso Sarajevo, con l’obiettivo di “far tacere le armi e consegnare gli aiuti”.
Il 5 agosto il “Corriere” tornava poi a concedere spazio alla marcia pacifista, ed in questa occasione dedicandole anche un piccolo articolo, nel quale si sottolineava però che i partecipanti non avevano i permessi per superare i posti di blocco dell’Onu e che sarebbero stati quindi bloccati nella cittadina di Prozor.
Per la prima volta poi si nominavano anche le diverse associazioni italiane che avevano preso parte all’iniziativa, come Arci, Acli e Pax Christi, e si riportavano anche le parole di alcuni partecipanti, tra cui quelle del fondatore dei “Beati i costruttori di pace”, Don Bizzotto, e dei volontari della Caritas di Torino.

Sulle pagine del “Corriere” però si riferiva nuovamente della marcia “Mir sada” solo l’8 di agosto e senza alcun clamore. Difatti, in un articolo di Eros Bicic sulla Bosnia, le ultime righe venivano dedicate alla notizia che una quindicina di pacifisti partecipanti alla marcia avevano deciso di dirigersi a piedi verso Sarajevo, nonostante il giorno prima gli organizzatori avessero scelto di interrompere l’iniziativa. Il corrispondente da Zagabria del “Corriere” non si preoccupava però di riferire perché fosse stata presa questa decisione.
Il giorno successivo invece un piccolo trafiletto correggeva le notizie riportate da Bicic, riferendo che erano in realtà cinquantotto i pacifisti che avevano proseguito la marcia, e che l’associazione “Beati i costruttori di pace” aveva scritto una lettera ai Presidenti di Camera e Senato e a quello del Consiglio, spiegando la legittimità della propria iniziativa e richiedendo una delegazione di parlamentari a guidare ciò che restava della marcia.
Il “Corriere” non spiegava però che la maggior parte dei partecipanti si era diretta invece verso Mostar, nel tentativo di interrompere gli scontri tra musulmani e croati in corso nella zona.

Anche il 10 e l’11 agosto le prime pagine del quotidiano di Mieli, che erano sempre dedicate alla Bosnia, ignoravano ciò che rimaneva della marcia dei pacifisti, mentre erano presenti diversi articoli sul presunto ritiro dei serbi, poi smentito, dai monti attorno alla città di Sarajevo, per evitare così l’inizio dei bombardamenti Nato.
Diversi scritti erano anche dedicati al salvataggio di Irma, una bambina bosniaca ferita da un mortaio, notizia che ebbe un forte impatto mediatico in quanto la bimba venne trasportata d’urgenza a Londra per essere operata da medici britannici, e diede il via ad una gara di solidarietà tra i paesi europei per evacuare dagli ospedali di Sarajevo i piccoli bosniaci feriti.

Il 12 agosto invece il “Corriere” dedicava un breve articolo all’arrivo a Sarajevo dei cinquantotto pacifisti rimasti sui 2500 partiti da Spalato. Nel testo si riferiva che costoro erano stati presi a colpi di arma da fuoco nei pressi di Gornji Vakuf, per poi riuscire a raggiungere Sarajevo, dove avevano condiviso i pochi viveri che avevano trasportato per lanciare al mondo un messaggio di pace.
Nonostante le informazioni riportate si rivelassero abbastanza confuse sulle effettive tappe percorse dai volontari, il “Corriere” riferiva anche che 400 pacifisti erano riusciti a sostare a Mostar grazie alla condiscendenza delle truppe croate. L’articolo infine ricordava che erano presenti tra i “superstiti” della marcia giunti a Sarajevo anche alcuni italiani dell’organizzazione “Beati i costruttori di pace”.
Nei giorni successivi poi l’attenzione del “Corriere” continuava ad essere catturata dalle possibili imminenti operazioni della Nato, in particolare nella base di Aviano, e dal dispiegamento di forze dell’esercito italiano al confine con la Slovenia, per contenere il rischio di possibili attentati minacciati da Karadžić.
Si davano poi ampi spazi nelle pagine del giornale anche all’organizzazione dei voli umanitari per salvare i bambini di Sarajevo, ed alle manovre dei serbi per lasciare i monti Igman e Bjelašnica al controllo dell’Onu, mentre non si faceva più alcun riferimento all’iniziativa dei pacifisti.

Anche sulle pagine del quotidiano “La Repubblica”, come già su quelle del “Corriere della Sera”, la marcia dei pacifisti europei diretti a Sarajevo non veniva menzionata fino ai primi giorni di agosto.
Era infatti del 3 di agosto il primo trafiletto che informava della presenza di 1200 pacifisti italiani a Spalato diretti a Sarajevo, dove, secondo il quotidiano di Scalfari, erano attesi diecimila manifestanti da tutto il mondo, per ripetere l’analoga manifestazione svoltasi nel dicembre del 1992.
Il 5 agosto invece “Repubblica” inseriva, all’interno dell’articolo sulla conquista serba del monte Igman, alcune righe sulla manifestazione pacifista “Mir Sada”.
Nel testo le informazioni erano più dettagliate in paragone a quelle riportate dal “Corriere”, e specificavano che nonostante l’Onu avesse negato alla marcia i permessi e la scorta militare, tra le “centinaia” di pacifisti presenti a Spalato solo gli 800 dotati di mezzi di trasporto erano partiti il giorno precedente alla volta di Prozor. Inoltre si riferiva che altri 400 avrebbero cercato di raggiungerli dopo aver recuperato ulteriori mezzi a motore.

L’8 agosto poi “Repubblica”, come aveva fatto anche il “Corriere”, tornava a parlare della marcia internazionale, ma, a differenza del quotidiano di Mieli, quello di Scalfari gli dedicava un articolo indipendente, anche se breve. Nel testo venivano riportati gli aggiornamenti sulla situazione della marcia che era stata bloccata in territorio bosniaco, anche se non se ne specificava il luogo. Si sottolineava però che la delegazione francese aveva rinunciato all’impresa, mentre solo 15 militanti si erano diretti a piedi verso Sarajevo.
“Repubblica” ricordava poi che l’associazione “Beati i costruttori di pace” aveva rivolto un appello a Napolitano perché convocasse una seduta straordinaria della Camera sulla Bosnia, per “decidere se mettere oppure no le basi militari del nostro territorio a disposizione di un’azione di guerra che la nostra Costituzione vieta.”.

Anche martedì 10 agosto su “Repubblica”, all’interno di un articolo sulla Bosnia, si ricordava che la marcia pacifista, seppur ridotta ormai a 58 elementi, si stava avvicinando a Sarajevo. I pacifisti però, che erano giunti a 50 chilometri dalla città, erano stati respinti ad un check point di caschi blu canadesi, e avevano dovuto allungare il percorso di altri 30 chilometri.
“Repubblica” riferiva che tali informazioni erano state riportate in una conferenza a Padova dall’associazione “Beati i costruttori di pace”, dove oltre a chiedere la fine del conflitto in Bosnia con l’invio di 100mila caschi blu, si dichiarava anche che un migliaio di pacifisti, facenti parte inizialmente della marcia verso Sarajevo, avevano invece deciso di dirigersi su Mostar.
Nei giorni seguenti poi l’attenzione del quotidiano di Scalfari si focalizzava in particolare sulle presunte azioni militari che la diplomazia americana sembrava stesse programmando in risposta alle mutevoli dichiarazioni dei serbi sul loro ritiro dai monti Igman e Bjelašnica. Ovviamente “Repubblica” non trascurava anche di occuparsi delle preoccupazioni delle istituzioni italiane per possibili attentati terroristici da parte dei serbi nei territori italiani di confine, come anche della gara di solidarietà sviluppatasi tra i paesi europei per occuparsi dei bambini feriti di Sarajevo.

Il 12 agosto per la prima volta “Repubblica” dedicava un intero articolo all’arrivo a Sarajevo dei pacifisti di “Mir Sada”, dove si specificava che in realtà il loro numero era di 65 persone, mentre le 58 segnalate due giorni prima sulle pagine dello stesso giornale, e riferite anche dal “Corriere”, in realtà facevano parte di un altro gruppo che si era fermato a Zenica.
Oltre all’evidente confusione nelle cifre, nell’articolo ci si occupava in realtà poco dei volontari giunti nella città assediata, per concentrarsi invece sulle dichiarazioni rilasciate ad Ancona dai partecipanti alla marcia che erano già tornati in Italia, e vi si riferiva anche che i pacifisti stavano organizzando due manifestazioni di protesta presso le basi Nato di Aviano e Gioia del Colle, ma che sedici di loro rischiavano fino a due anni di reclusione, essendo obiettori di coscienza fuoriusciti dall’Italia senza permesso.
In quegli stessi giorni “Repubblica” pubblicava poi anche alcuni articoli sulle nuove richieste di “ingerenza umanitaria” da parte del Papa, in quel periodo in visita negli Stati Uniti.

Il 13 di agosto invece, in un articolo contenente un’intervista a Luigi D’Elia, un volontario romano che aveva messo in piedi una piccola organizzazione con la quale recuperava viveri e medicinali per poi portarli in prima persona fino a Sarajevo, le ultime righe erano riservate ad un commento sulla marcia dei pacifisti.
Il signor D’Elia esprimeva però un parere fortemente negativo sull’iniziativa, definendola una “farsa” ed una “truffa”, e chiedendosi quale scopo effettivo avessero operazioni del genere, dove a suo parere i pacifisti creavano “più disturbo che aiuto” e si comportavano come “turisti di guerra”.
Il 14 agosto poi su “Repubblica” si tornava a parlare direttamente dei pacifisti italiani, ma anche di pacifismo in generale. Ai primi si faceva riferimento all’interno di un articolo su un nuovo “lager” scoperto vicino a Mostar, dove i croato bosniaci tenevano prigionieri più di 20mila musulmani.
L’ultima parte del testo infatti riportava le parole di don Albino Bizzotto, fondatore di “Beati i costruttori di pace” appena sbarcato ad Ancona, il quale dichiarava che ormai i cittadini di Sarajevo non credevano più alla possibilità di un intervento militare della comunità internazionale, anche se in realtà ammetteva di non aver preso parte al gruppo di volontari che era arrivato fin nella capitale bosniaca, in quanto riteneva che recarvisi in quel momento difficile dell’assedio avrebbe creato ulteriori problemi alla popolazione.
Di pacifismo si occupava invece Gianni Baget Bozzo in un editoriale intitolato “Il pacifismo è morto…”, nel quale paragonava il “supremo sforzo di coerenza” dei pacifisti europei alla medievale crociata dei bambini verso Gerusalemme guidata da Pier l’eremita, sottolineando però che, diversamente da quest’ultimi, non si capiva con quali speranze i primi si fossero invece mossi verso Sarajevo.
Il presbitero infatti sulle pagine di “Repubblica” affermava che “il pacifismo si fonda su una memoria religiosa cristiana: ogni uomo è tuo fratello”, ma che nelle terre jugoslave post comuniste non vi era alcuna traccia di trascendenza e la memoria religiosa viveva solo come negazione dell’altro uomo, e che quindi era impossibile aspettarsi che attecchisse il messaggio di universale umanità portato dai pacifisti europei nel tentativo di fermare la guerra. Baget Bozzo sentenziava infatti che “nel mondo postcomunista il pacifismo è morto”, perché, mentre durante la guerra fredda il lessico culturale dei contendenti aveva lo stesso significato e ci si poteva appellare alla pace intesa nel stesso modo, “nelle guerre di religione dei Balcani che seguono la fine del comunismo è caduto il linguaggio comune”.
Per il giornalista quindi in questo conflitto, dove le identità religiose e culturali erano le uniche certezze e dove la violenza era l’unica voce, la conseguenza era che “l’unica risposta possibile all’uso della violenza è l’uso della forza”, anche perché, ricordava Baget Bozzo, l’aiuto umanitario dell’Onu aveva finito per diventare un mezzo per l’esercizio della violenza serba, dando legittimità con i suoi negoziati alle loro conquiste territoriali. Infine il giornalista sosteneva che la marcia di Sarajevo aveva costituito la fine del pacifismo, o per le meno del pacifismo come “forma del mondo unito dalla divisione tra democrazia e comunismo”, che andava ripensato in un periodo dove la guerra dei grandi sistemi era stata sostituita dalla guerra delle bande etniche, nella quale si univano allo stesso modo la morte di sangue e la morte per fame senza pietismo.

Infine “Repubblica” si occupava per l’ultima volta del movimento pacifista italiano con un articolo del 15 agosto, dove veniva riferito che il giorno precedente 300 pacifisti guidati da Don Bizzotto avevano organizzato una manifestazione da Pordenone alla base Nato di Aviano. L’articolo spiegava come, una volta giunti davanti all’ingresso della base, i manifestanti avessero tentato di ottenere un colloquio con il comandante ma senza ricevere alcuna risposta, e nel momento in cui avevano cercato di stabilire un sit-in che bloccasse il passaggio, erano stati allontanati dalle forze dell’ordine.
Su “Repubblica” quindi, dopo che durante il mese di luglio l’organizzazione della marcia pacifista “Mir Sada” non aveva trovato nessuno spazio, nei giorni in cui la marcia era in corso erano stati pubblicati alcuni aggiornamenti su di essa, ma soprattutto dopo che questa era sostanzialmente fallita si era mantenuta sulle pagine del quotidiano romano una certa attenzione sul movimento pacifista italiano e sulle iniziative dei “Beati i costruttori di pace” e della sua guida Don Bizzotto.


”Secolo d’Italia” e “Il Giornale”
Sulle pagine del “Secolo d’Italia” invece, nei mesi di luglio e agosto non furono mai fatti riferimenti alla marcia dei pacifisti occidentali, ne tantomeno all’associazione “Beati i costruttori di pace” e alle sue iniziative. Il “Secolo” si occupava però ovviamente del conflitto in Bosnia, concentrandosi in più occasioni sui presunti rischi per l’Italia dovuti a possibili attacchi terroristici o a fantomatici attacchi missilistici da parte dei serbo bosniaci.
Come ad esempio nell’articolo del 10 agosto di Paolo Toppi intitolato “Tutte le armi dei serbi bosniaci”, nel quale il giornalista si dilungava sulle armi a lunga gittata presumibilmente in mano delle truppe serbe, con le quali avrebbero potuto colpire le coste italiane.
O come anche nell’editoriale non firmato e pubblicato in prima pagina il 13 agosto, nel quale con esagerato allarmismo il “Secolo” sosteneva che l’Italia si trovasse in “prima linea” nel conflitto.
Il medesimo giorno tra l’altro venivano pubblicati tre articoli sull’attività delle organizzazioni umanitarie in Bosnia e sulla drammatica situazione dei bambini colpiti dalla guerra, ma nemmeno una parola veniva spesa per la marcia dei pacifisti.

Diversamente dal “Secolo”, sul “Giornale” diretto da Montanelli le prime notizie riguardanti l’iniziativa delle associazioni pacifiste europee venivano pubblicate il 29 luglio, con un lungo trafiletto intitolato “Diecimila pacifisti in marcia su Sarajevo”.
Nel testo veniva specificato che la marcia si sarebbe svolta dal 2 al 14 agosto, con partenza da Spalato e arrivo a Sarajevo, ma si ricordava anche che i volontari non avrebbero potuto usufruire della scorta delle forze di pace dell’Onu, mentre avrebbero comunque dovuto attraversare zone che erano teatro di aspri combattimenti.

Il “Giornale” però tornava poi a parlare della marcia pacifista solo il 4 di agosto con un breve trafiletto, nel quale si riferiva semplicemente che i 1500 pacifisti, e non 10mila come scritto pochi giorni prima, avevano deciso di fermarsi già a Spalato per motivi di sicurezza, citando come fonte della notizia l’agenzia croata “Hina”. Inoltre era anche stata organizzata per la sera stessa una riunione, in cui tutti i partecipanti avrebbero dovuto decidere se proseguire o meno verso Sarajevo.
Nei giorni successivi il quotidiano di Montanelli trascurava invece di aggiornare i lettori sull’andamento della marcia pacifista, concentrandosi come già “Repubblica” e ”Corriere” sulle trattative di pace in corso a Ginevra e sui bombardamenti aerei programmati dalla Nato, verso i quali tra l’altro il “Giornale” era decisamente contrario perché venivano ritenuti un provvedimento tardivo ed insufficiente.

Solo il 12 agosto poi il “Giornale” riportava nuovamente notizie sull’iniziativa dei pacifisti europei, con un articolo di Mimmo Lombezzi enfaticamente intitolato “E’ stata un’odissea di paura la marcia della pace a Sarajevo”.
Lombezzi quindi riferiva la testimonianza di una volontaria italiana e di una greca che facevano parte del gruppo di 65 persone arrivate il giorno prima a Sarajevo. Le due giovani infatti dichiaravano che dopo aver deciso di proseguire la marcia, andando contro alle direttive dei “Beati costruttori di pace” e delle altre associazioni promotrici dell’iniziativa “Mir Sada”, avevano trascorso 6 giorni in un territorio sconvolto dalla guerra e senza ottenere nessuna protezione dalle truppe dell’Onu incontrate lungo la strada. Inoltre, le due volontarie riferivano anche che le associazioni pacifiste si erano completamente disinteressate dei manifestanti che avevano deciso di proseguire per Sarajevo, evitando di fornirgli qualsiasi tipo di indicazione o equipaggiamento per giungere incolumi alla meta. br>
Dal 13 agosto in avanti invece le notizie sui pacifisti scomparvero dal quotidiano di Montanelli, mentre tra i molti articoli sulle minacce di rappresaglie serbe in caso di attacchi della Nato e sulla gara di solidarietà scatenatasi tra i paesi Occidentali dopo il reportage sulla sorte di Irma, l’ormai famosa bambina di Sarajevo in seguito ricoverata a Londra, spiccava un editoriale di Luciano Gulli fortemente critico nei confronti della “commozione universale” e della “ecumenica solidarietà” che emergevano solo quando i media evidenziavano un caso particolare come quello di Irma, mentre normalmente la burocrazia dimenticava le centinaia di migliaia di feriti e malati della Bosnia.


”Il Popolo” e “L’Osservatore Romano”
Sul quotidiano “Il Popolo”, come già sul “Giornale”, le prime notizie sull’iniziativa dei pacifisti venivano pubblicate il 29 luglio nelle ultime righe di un articolo riguardante le prime minacce statunitensi di effettuare bombardamenti aerei in Bosnia, minacce giunte in seguito ad alcuni attacchi contro i caschi blu. Nel testo i volontari venivano presentati come un “”esercito” di diecimila persone” appartenenti a diverse associazioni, e si annunciava che avrebbero seguito un itinerario che attraversava le zone dei combattimenti ma senza potersi avvalere della protezione dell’Onu.
La stessa dinamica di pubblicazione si presentava sulle pagine del “Popolo” anche lunedì 2 agosto, quando, nelle ultime frasi dell’articolo dedicato alle trattative negoziali di Ginevra sulla Bosnia, si riferiva erroneamente che “10.000 cittadini della pace” erano partiti il giorno precedente da Spalato, con la presenza di numerose personalità internazionali.
Il 3 agosto infatti il “Popolo” contraddiceva quanto riportato solo il giorno prima, riferendo, sempre alla fine dell’articolo dedicato alla Bosnia, che mille e duecento pacifisti italiani erano sbarcati a Spalato il 2 agosto, dove si erano congiunti con altri volontari europei ed avevano organizzato subito una riunione per discutere della cruenta ripresa dei combattimenti.
Tuttavia, nei giorni seguenti, sulle pagine del quotidiano della Dc non venivano più riportati aggiornamenti sulla situazione della marcia pacifista, mentre tutte le notizie riguardanti la Bosnia venivano sempre condensate in un unico articolo.

Il 10 agosto il “Popolo” tornava a dedicare alcune righe alla marcia “Mir Sada”, e lo faceva tra l’altro solamente per riferire che i 58 pacifisti che avevano deciso di proseguire individualmente verso Sarajevo erano stati bloccati dai soldati Onu a Kiseljak, e rispediti indietro fino a Zenika, distante ottanta chilometri dalla capitale bosniaca.
Il 12 agosto invece veniva dedicata qualche frase in più alla marcia internazionale, ora composta da “più di 70 pacifisti” secondo il “Popolo”, che riferiva anche che gli altri partecipanti si trovavano sulla via del ritorno a causa di difficoltà e problemi “di comprensione reciproca”.
Nello stesso articolo venivano riportate poi anche le interessanti dichiarazioni di monsignor Luigi Bettazzi, presidente di Pax Christi e facente parte dei volontari che avevano rinunciato a concludere la marcia a Sarajevo. Monsignor Bettazzi ricordava che l’obiettivo della marcia sarebbe stato quello di giungere fino a Sarajevo, per portare aiuti e interrompere i combattimenti almeno per qualche giorno, com’era già successo nel dicembre del 1992. Il vescovo poi però non esitava ad affermare che non vi era stato “l’interesse nelle grandi nazioni industrializzate ad interventi non armati”, in quanto sarebbero stati molto più rischiosi per la vita di chi li compiva in confronto agli interventi militari tradizionali.
A partire dal 13 agosto invece, e nonostante in tale data al conflitto bosniaco venisse dedicata un’intera pagina del “Popolo” comprendente quattro articoli, la marcia pacifista veniva definitivamente ignorata, così come l’arrivo a Mostar di alcune centinaia di pacifisti che avevano rinunciato a raggiungere Sarajevo.

Anche sull’“Osservatore Romano”, che pur si occupava tutti i giorni della situazione bosniaca, inaspettatamente i primi riferimenti alla marcia per la pace “Mir Sada” venivano fatti solo il 7 di agosto, ed all’interno di un articolo relativo all’evolversi dei negoziati di Ginevra e allo stringersi dell’assedio serbo su Sarajevo.
Nel testo, il quotidiano della Santa Sede riferiva che i partecipanti alla marcia avevano incontrato le prime difficoltà a Prozor, paese da cui soldati croato bosniaci avevano tentato di allontanarli per motivi di sicurezza, ma dove alla fine erano riusciti a pernottare in attesa di un secondo gruppo di partecipanti.

Il giorno successivo poi, 8 di agosto, l’”Osservato Romano” riferiva, sempre all’interno dell’unico lungo articolo dedicato alla Bosnia, che i partecipanti alla marcia pacifista si erano divisi, con alcuni che avrebbero tentato di raggiungere Sarajevo come previsto dal piano iniziale, mentre altri avevano deciso di mettere in atto la medesima iniziativa dirigendosi però su Mostar.
L’”Osservatore” specificava poi, riportando le dichiarazioni dell’ufficio stampa di “Mir Sada”, che andava smentita la notizia pubblicata da alcune agenzie di stampa che davano l’intera carovana sulla strada del ritorno, e che, al di là della destinazione, la strategia restava “quella del passo dopo passo, cercando di fare opera di interposizione non violenta e di negoziare accordi di tregua”.

Dopo alcuni giorni di silenzio, il 12 agosto l’”Osservatore Romano“ riferiva invece per l’ultima volta della conclusione della marcia pacifista in Bosnia, e del ritorno di coloro che vi avevano preso parte. In particolare il quotidiano della Santa Sede ricordava che cinquanta pacifisti si stavano comunque recando a titolo individuale verso Sarajevo, mentre altri 400 erano riusciti ad entrare a Mostar grazie alle trattative con i comandi militari locali, ma che dopo essersi raccolti in preghiera erano dovuti subito ripartire.


Il caso del ”L’Unità”

Sulle pagine dell’” Unità”, dove si dava sovente un’ampia copertura degli eventi bosniaci e della conferenza di Ginevra, lo stesso veniva fatto anche per la marcia internazionale per la pace “Mir Sada”, a differenza dei quotidiani fin qui consultati.
Già il 15 luglio infatti l’”Unità” pubblicava un articolo sulla preparazione della marcia pacifista, nel quale venivano riportate le parole con cui il fondatore dei “Beati i costruttori di pace” don Albino Bizzotto aveva presentato l’iniziativa in una conferenza stampa. Don Bizzotto dichiarava quindi che la marcia da Spalato a Sarajevo non sarebbe stato solo un’azione simbolica, ma bensì anche politica, in particolare contro “la nuova Europa che sta nascendo in Bosnia […] fondata sulla separazione etnica, sugli interessi particolaristici” e “sui nazionalismi”.

Sempre sull’”Unità” poi il 19 luglio veniva pubblicata una lettera della “Lega obiettori di coscienza” italiana, fortemente contraria alla presenza e al ruolo dei militari italiani all’interno della missione Onu in Somalia. All’interno del testo veniva auspicato infatti che per la Somalia, così come per tutti i conflitti in corso nel mondo, venisse raccolto dalle istituzioni l’esempio della società civile italiana, che dopo aver organizzato con successo una marcia pacifista a Sarajevo nel dicembre del 1992, si accingeva a ripetere l’iniziativa nei primi giorni di agosto per “tentare un’opera di mediazione” e “di ricostruzione delle condizioni di convivenza”.
La lettera degli obiettori italiani si concludeva poi con l’affermazione che, per quanto poco potessero ottenere i pacifisti europei andando a Sarajevo, sarebbe stato comunque “sempre più di quello che l’intervento militare ha ottenuto in Somalia”.

Il quotidiano del Pds ricordava poi ai suoi lettori l’imminente partenza della marcia pacifista “Mir Sada” con un trafiletto pubblicato il 29 luglio, all’interno del quale si specificavano le date dell’iniziativa, che si sarebbe svolta dal 2 al 14 agosto, ma anche i pericoli che avrebbe dovuto affrontare attraversando le zone dei combattimenti senza alcuna protezione dell’Onu.
Lo stesso giorno inoltre l’”Unità”, nella pagina dedicata all’intervista a Vittorio Foa sugli attentati mafiosi del 27 luglio a Roma e Milano, pubblicava un’inserzione pubblicitaria dei “Beati i costruttori di pace” che promuoveva l’iniziativa internazionale “Mir Sada”, illustrandone gli obiettivi e l’organizzazione.
L’1 agosto l’”Unità” riferiva poi con un altro trafiletto che i primi pacifisti italiani sarebbero partiti la sera stessa per recarsi a Spalato, da cui avrebbero iniziato una marcia che si profilava sempre più complicata a causa dell’inasprirsi dei combattimenti. Nel testo si riportavano anche le dichiarazioni di Don Spegne dei “Beati i costruttori di pace”, il quale affermava senza indugi che i volontari non si sarebbero più accontentati di portare viveri e medicinali, ma che avrebbero tentato invece una “invasione di pace” per fermare temporaneamente la guerra e proporre ai contendenti “il rispetto dei diritti umani”.

Il 2 agosto sull’”Unità” compariva invece il primo articolo originale riguardante la marcia pacifista firmato da Guido Montanari, recatosi per l’occasione ad Ancona per assistere alla partenza della sera precedente dei primi volontari italiani. Montanari riportava dunque molte dichiarazioni dei partecipanti all’iniziativa, tra le quali ovviamente quelle di Don Albino Bizzotto, ma anche quelle di un giovane obiettore di coscienza, di una rappresentante del Comune di Collegno ed in particolare di Franco Passuello, vicepresidente nazionale delle Acli, che sosteneva che i pacifisti avrebbero portato non solo “un aiuto concreto, ma anche un sostegno morale alla popolazione” per tentare di “spezzare il cerchio dell’isolamento” che da mesi rinchiudeva gli abitanti di Sarajevo.
“L’Unità” proseguiva quindi i suoi aggiornamenti quotidiani con un trafiletto il 3 di agosto, nel quale si riferiva solo che i pacifisti arrivati a Spalato, fino a quel momento 2000 sui 10.000 previsti, si erano riuniti in assemblea per decidere se e come proseguire la marcia in un territorio ormai in balia dei combattimenti.

Il giorno seguente, 4 agosto, sempre un trafiletto riferiva che una decina di pacifisti italiani che avevano tentato di entrare in Bosnia erano stati respinti da militari croati a Tomislavgrad e costretti a fare ritorno a Spalato, dove i partecipanti a “Mir Sada” stavano ancora decidendo come proseguire la loro marcia.
Il 5 agosto invece, l’”Unità” dedicava alla marcia pacifista l’ultimo paragrafo dell’articolo relativo alla conquista definitiva del monte Igman da parte delle truppe serbo bosniache di Mladić.
In poche righe il quotidiano diretto da Veltroni riferiva solo che i pacifisti avevano deciso di tentare il viaggio verso Sarajevo, passando lungo la stessa strada nella quale i convogli umanitari dell’Onu erano bloccati da settimane a causa dell’intensità dei combattimenti.

L’”Unità” riservava poi il 6 agosto due intere pagine al conflitto bosniaco, e tra i molti articoli veniva concesso anche un trafiletto all’arrivo in Bosnia, a Prozor, dei primi partecipanti alla “carovana della pace”. Il quotidiano del Pds riferiva poi che l’iniziativa aveva trovato “buona accoglienza sulle pagine dei giornali tanto serbi che croati”, e che Izetbegović si era impegnato a proteggere i partecipanti alla missione.
Il 7 agosto l’ennesimo trafiletto riferiva che la marcia pacifista si era divisa in due a Prozor, con un gruppo di partecipanti che aveva deciso di ritornare a Spalato ed altri che invece avrebbero tentato di raggiungere in giornata Gornj Vakuf, prima tappa sulla lunga strada per Sarajevo.

L’8 agosto l”Unità” dedicava poi un piccolo articolo alle nuove notizie provenienti da “Mir Sada”, i cui partecipanti avevano desistito dal raggiungere Sarajevo a causa dell’intensità del conflitto armato, anche se riferiva che 15 persone, di nazionalità greca, americana e italiana, avevano deciso di proseguire lo stesso.
L’”Unità” specificava poi che i pacifisti che avevano rinunciato si sarebbero probabilmente diretti verso Mostar, ma che tra le varie associazioni partecipanti erano emersi alcuni dissapori nella valutazione dei possibili rischi della nuova iniziativa. Tra queste, i “Beati i costruttori di pace” si erano poi distinti per aver inviato una lettera al presidente della Camera Napolitano, nella quale richiedevano di convocare una seduta della Camera per “decidere se mettere le basi italiane a disposizione di un’azione di guerra come quella che si profila”.

Lunedì 9 agosto l’”Unità” dedicava insolitamente un intero articolo alle ragioni che avevano portato i pacifisti a cambiare la destinazione della loro marcia. Nell’articolo, scritto dal presidente nazionale dell’Arci Benettollo Crippa Rasimelli, si ricordava che qualsiasi centro abitato lungo il percorso previsto era teatro di scontri, e che l’interrogativo che si erano poste le associazioni era se valesse la pena proseguire “quando il rischio da possibilità diventa certezza”, esponendo così la vita di quasi duemila persone.
Crippa Rasimelli spiegava che la sua posizione era che “la testimonianza religiosa […] non può non fare i conti con le ragioni e le novità politiche e militari del conflitto”, in particolare con le ultime offensive che gli eserciti in campo stavano tentando per delineare i confini, prima della probabile firma dei trattati di pace di Ginevra, ma anche con la decisione di Nato e Onu per un possibile intervento militare.
Basandosi su questi nuovi avvenimenti il presidente dell’Arci sosteneva che l’impegno dei pacifisti non poteva essere solamente “quello di imbottigliarsi sulla strada per Sarajevo, con il rischio che la vita o la morte, il passaggio o l’arresto della carovana possano risultare dalla volontà strumentale delle parti in conflitto”, ma che invece anche l’arrestarsi poteva significare non un fallimento ma una dimostrazione dell’impotenza “a continuare un’azione diretta sul campo”, impotenza che avrebbe dovuto rilanciare l’appello e la mobilitazione dell’Occidente affinché l’intervento della Nato non complicasse la situazione sul campo, e per fare in modo che la politica della “pulizia etnica” non diventasse la base dei negoziati di pace.
Crippa Rasimelli infine ricordava che la carovana di “Mir Sada” avrebbe comunque tentato di raggiungere Mostar per mostrare all’opinione pubblica la tragedia che vi si stava svolgendo, e che il 26 settembre tutti coloro che erano “preoccupati per le sorti della pace” dovevano partecipare alla marcia Perugia-Assisi, perché, concludeva il presidente dell’Arci, “è il momento di una forte mobilitazione e non dell’incertezza o dello sconforto”.
L’articolo di Crippa Rasimelli del 9 agosto racchiudeva anche un trafiletto dove si riferiva che 58 partecipanti alla marcia si stavano recando ugualmente dietro iniziativa individuale a Sarajevo, e che il leader dei serbo bosniaci Radovan Karadžić aveva offerto agli organizzatori di “Mir Sada” un salvacondotto per tutta la Repubblica serba, un messaggio, secondo l’”Unità”, che riecheggiava “la preoccupazione sul fronte serbo per il possibile intervento aereo dei caccia Nato”.
Sempre il 9 di agosto l’”Unità” si occupava anche di pacifismo in generale con un lungo editoriale di Emanuela Risari intitolato “Vedi alla voce pace”, incentrato sull’evolversi del movimento pacifista e sugli interventi del pacifismo sulla carta stampata. Nel testo si ricordava che i nuovi pacifisti italiani, definiti “strateghi di pace”, rifiutavano la guerra come mezzo per ottenere la pace e continuavano a sostenere l’articolo 11 della Costituzione, che ripudia la guerra come strumento per risolvere le controversie, articolo che la giornalista ricordava come fosse stato invece duramente attaccato da Galli della Loggia sulle pagine di “Limes”.
Risari inoltre sottolineava che quella che poteva sembrare un’utopia, “Mir Sada” aveva tentato di metterla in pratica attraversando a piedi e disarmata i fronti di guerra. Anche se poi Risari si dimostrava abbastanza critica sul nuovo tentativo dei pacifisti di raggiungere Sarajevo, e si chiedeva ironicamente cosa sarebbe cambiato per gli abitanti se la nuova marcia avesse avuto successo, una volta che i pacifisti avessero poi lasciato la città, riconosceva comunque che in Bosnia era “iniziato anche il cammino di un inedito sulla scena del mondo, la pratica nonviolenta esattamente al centro di una guerra guerreggiata”.

Il 10 di agosto invece, tra gli articoli sul rinvio dei bombardamenti della Nato contro le postazioni serbe e sul salvataggio della bambina bosniaca Irma, l’”Unità” ritornava a dedicare solo un trafiletto alla sorte del migliaio di pacifisti in marcia verso Mostar ed ai 58 ancora diretti a Sarajevo, che riferiva essere stati però fermati a Kiseljak da soldati dell’Onu e rispediti quindi a Zenica, a più di 80 chilometri dalla capitale.
Anche l’11 agosto, all’interno delle due pagine dedicate alla guerra in Bosnia con il finto ritiro dei serbi dal monte Igman ed il nuovo richiamo del Papa all’ingerenza umanitaria, veniva pubblicato un trafiletto sui risultati ottenuti dai pacifisti di “Mir Sada”, che dopo essere riusciti ad entrare in quattrocento a Mostar grazie ad estenuanti trattative ai posti di blocco militari, avevano potuto però solo raccogliersi in preghiera di fronte alla cattedrale, per poi lasciare subito la città.
I pacifisti erano quindi tornati a Spalato, da cui i volontari di nazionalità italiana si sarebbero dovuti imbarcare verso Ancona nella giornata stessa dell’11 agosto.

Il giorno seguente però, 12 agosto, l’”Unità” tornava a riservare un intero articolo alle discussioni che avevano accompagnato il rientro in Italia dei pacifisti, e lo faceva con un testo di Jenner Meletti inviato ad Ancona appositamente per il rientro dei volontari.
Meletti intervistava quindi alcuni dei 714 pacifisti rientrati in Italia, che non si ritenevano sconfitti dal fatto di non essere riusciti a raggiungere Sarajevo, ma che proprio su questa decisione manifestavano ancora dissapori. Il giornalista dell’”Unità” riferiva poi, unico tra i quotidiani italiani, che il padre di uno dei 58 pacifisti che avevano proseguito verso Sarajevo aveva ricevuto una telefonata dal figlio che confermava il loro arrivo, ma riferiva anche erroneamente che tra di essi vi era lo stesso don Albino Bizzotto, fondatore dei “Beati i costruttori di pace”.
Meletti ricordava poi che tra i principali oppositori al proseguimento della marcia verso la capitale assediata vi era stato Alain Michel, il leader dei pacifisti francesi, che riteneva che la presenza di meno di duemila pacifisti rispetto alle decine di migliaia previsti, non permetteva agli organizzatori di rischiarne la vita.
Si riportavano però nel testo anche le dichiarazioni fatte alla stampa al loro arrivo ad Ancona di tre eminenti figure del pacifismo italiano, ossia padre Fabrizio Forti, segretario dell’Istituto dei Cappuccini per la giustizia e la pace, monsignor Diego Bona, vescovo di Fiumicino, e Giovanni Bianchi, presidente delle Acli, che si mostravano decisamente critici sull’accoglienza ricevuta dalle autorità croate e sui risultati ottenuti. Giovanni Bianchi sottolineava poi che le difficoltà incontrate sul campo dai volontari con “interminabili assemblee permanenti”, erano dovute al fatto che per iniziative di questo tipo bisognava prevedere più tempo a disposizione, senza fiondarsi in territorio di guerra come “paracadutisti”.
L’articolo era infine corredato anche da una fotografia raffigurante i volontari che erano riusciti a raggiungere Mostar nei giorni precedenti.

Il 13 agosto l’”Unità” riservava poi l’ultima attenzione al movimento pacifista italiano, ed in questa occasione lo faceva pubblicando a pagina 2 una lunga intervista a monsignor Luigi Bettazzi, vescovo di Ivrea reduce dalla marcia “Mir Sada”.
Rispondendo alle domande di Alceste Santini, monsignor Bettazzi sottolineava che la situazione trovata in Bosnia era profondamente peggiorata rispetto a quella della precedente iniziativa pacifista di dicembre, in quanto i fronti in lotta si stavano frazionando in molte fazioni armate sempre più indipendenti dalle leadership politiche, e si stava inoltre aggravando lo scontro tra musulmani e croati.
Il vescovo si dichiarava poi contrario a qualsiasi intervento militare, che andava invece a suo dire sostituito con “azioni di interposizione massiccia” da parte di un “esercito disarmato”, che avrebbe avuto il compito di coinvolgere le parti in lotta nel dialogo, interponendosi tra di esse ed impedendo il proseguimento degli scontri armati mentre venivano stipulati gli accordi politici a Ginevra.
Per concludere infine l’intervista, Santini domandava a monsignor Bettazzi i motivi delle divisioni che erano emerse tra le associazioni pacifiste durante lo svolgimento della marcia. Il vescovo di Ivrea rispondeva dunque che le motivazioni andavano ricercate nel fatto che i partecipanti alla marcia erano molto più numerosi rispetto alla precedente iniziativa, ma anche meno avvezzi ad esperienze del genere, e che soprattutto vi erano stati molti problemi per ottenere permessi e mezzi per muoversi a causa della critica situazione militare, che aveva contribuito a creare ed alimentare dissapori sulla condotta da seguire.
Monsignor Luigi Bettazzi concludeva poi che il motivo per cui i pacifisti si erano recati in Bosnia risiedeva nella volontà di salvaguardare la convivenza etnica che vi si poteva trovare prima della guerra, per farne quindi un simbolo per l’Europa futura e per evitare soprattutto che si andassero consolidando gli esempi di “isole etniche incomunicabili ed in lotta tra loro”.


”L’Avvenire” e ”La Stampa”

Come sull’”Unità”, anche sulle pagine dell’”Avvenire” la marcia pacifista veniva seguita con notizie quasi quotidiane a partire dal 31 luglio, quando un breve articolo riferiva che diecimila pacifisti sarebbero partiti il 2 agosto da Spalato per raggiungere Sarajevo. Nel testo si riportava anche buona parte del salvacondotto scritto da Izetbegović per i rappresentanti di “Mir Sada” con i quali si era incontrato a Ginevra, e si riferivano anche i messaggi di appoggio all’iniziativa arrivati dai leader croati Boban e Tudjman, come di quello del Cardinal Martini.

Il 3 agosto l’”Avvenire” pubblicava poi un lungo articolo sulla marcia di Maurizio Blondet, inviato del quotidiano che si era aggregato alla carovana pacifista in partenza da Spalato.
Blondet iniziava il suo articolo riferendo molto dettagliatamente le parole rivolte da Don Bizzotto al migliaio di pacifisti presenti a Spalato, parole con le quali il sacerdote illustrava le difficoltà sorte per iniziare la marcia, ossia l’intensificarsi degli scontri armati e la mancanza dei mezzi per muoversi, ma Don Bizzotto concludeva che secondo la sua opinione bisognava partire ugualmente per affermare il “diritto a manifestare per la pace”.
Il giornalista poi riferiva che, pur avendo la marcia ottenuto le autorizzazioni dai “tre capi delle etnie in lotta”, la Bosnia era piena di bande di irregolari e di banditi fuori dal controllo da cui ci si poteva aspettare un attacco.
Blondet però riportava anche la notizia, unico a scriverne sui quotidiani italiani, che una pattuglia di avanscoperta dei pacifisti aveva percorso l’intero tragitto da Spalato a Sarajevo in due giorni, e che al loro ritorno i tre partecipanti sostenevano che la marcia fosse tutto sommato fattibile.

Il giornalista proseguiva il suo reportage sulle pagine dell’”Avvenire” anche il 4 agosto, riferendo che un Maggiore dell’Onu aveva convinto gli organizzatori della marcia a desistere dal raggiungere la capitale bosniaca, e che questi avevano proposto ai pacifisti una “giornata di profonda riflessione”. Blondet non nascondeva poi il suo disappunto per le “assemblee interminabili” nelle quali andava discusso ogni minimo particolare, definendo la maggior parte dei partecipanti come “lettori del Manifesto e di Avvenimenti che portano in questa marcia lo stile assembleare dei centri sociali da cui provengono”.
L’articolo si concludeva quindi riferendo che si stavano già preparando iniziative diverse per evitare il fallimento della spedizione, ma che la possibilità di marciare su “Mostar era stata subito scartata.”.
Un nuovo articolo di Blondet veniva pubblicato il 6 agosto, e vi si riferiva che un migliaio di persone di “Mir Sada” erano giunte a Prozor la sera del 4 dopo alcune ore di viaggio, per essere però svegliate la mattina successiva da combattimenti tra croati e musulmani a poche centinaia di metri da loro. Il giornalista raccoglieva poi qualche dichiarazione da alcuni dei partecipanti alla marcia, per riferire infine che, dopo l’arrivo all’accampamento dei pacifisti di tre ambulanze con soldati croati feriti in attesa di essere recuperati da un elicottero, si era diffusa la paura tra i volontari che avevano indetto una nuova assemblea.

L’8 agosto Blondet riferiva che i pacifisti erano ancora bloccati dai combattimenti a Prozor, dove erano stati derubati di due automobili da un gruppo di croati. L’inviato ammetteva però di non essere stato presente all’avvenimento, in quanto per riuscire a telefonare si era recato a Tomislavgrad con due giornalisti di “Famiglia Cristiana” che possedevano una jeep, e che poi a causa della pericolosità delle strade avevano deciso di tornare nella più sicura Spalato.
Nella città della costa dalmata Blondet era tornato dunque al campo base dei pacifisti che non erano riusciti a partire, ricevendo da Prozor la notizia che una quindicina di loro aveva deciso di dirigersi ugualmente a piedi verso Sarajevo.
Lo stesso 8 di agosto però l’”Avvenire” pubblicava anche un editoriale dell’ex Senatore Dc Domenico Rosati, il quale attaccava coloro che presentavano le esitazioni “del campo di “Mir Sada” come un conflitto tra il “partito del coraggio” e il “partito della paura”, mentre comprendeva i sentimenti contrastanti dei pacifisti, dibattuti tra proseguire rischiando la vita e rinunciare sconfessando i loro propositi, e condivideva anche la loro richiesta fatta alla comunità internazionale per aiutarli a proseguire.
Rosati sosteneva però che l’unica risposta che l’Occidente era riuscito a dare fino ad allora era stata solo ricorrere alle armi inviando forze di pace, e che quindi i pacifisti avevano già dato una testimonianza senza aver bisogno di raggiungere Sarajevo quando, con il loro tentativo di marcia non violenta, in territorio croato e bosniaco avevano assistito coi loro occhi alle nefandezze della guerra, e perciò il loro compito ora consisteva nel trovare il coraggio di tornare e diventare “apostoli della necessità di fare davvero tutto quel che va fatto per costruire la pace.”.

Il 10 agosto un nuovo articolo di Maurizio Blondet annunciava che “Mir Sada” si era conclusa, e non secondo le ambizioni degli organizzatori, in quanto ricordava che invece di diecimila manifestanti a Sarajevo, i pacifisti erano riusciti a portare solo 400 persone a Mostar, scortati da soldati croati e senza la presenza di musulmani o serbi.
Blondet riferiva infatti che domenica 8 agosto i pacifisti avevano lasciato Prozor per fare ritorno a Spalato, mentre 65 di loro si erano rifiutati e avevano proseguito da soli verso Sarajevo. Il gruppo più numeroso si era quindi ricongiunto con i manifestanti rimasti in Croazia, e da lì avevano scelto di dirigersi verso Mostar.
Il giornalista riportava anche la polemica nata tra i volontari in seguito a una lettera ricevuta il 4 agosto, nella quale un politico serbo bosniaco chiedeva ai pacifisti di evacuare i serbi di Sarajevo, altrimenti sarebbe poi stato loro impedito il ritorno a casa. La lettera non era stata divulgata prima, ma in sostanza aveva spinto il leader dei pacifisti francesi Alain Michel a rinunciare alla marcia su Sarajevo per evitare di diventare ostaggi, e a dichiarare inoltre che qualcuno dei partecipanti a “Mir Sada” voleva tramutarsi in ostaggio di proposito per impedire così i bombardamenti della Nato.
Blondet raccontava poi nei dettagli di come si erano svolte le trattative con i militari croati per ottenere il permesso di recarsi a Mostar, riuscendo infine ad entrarvi solo con dieci pullman che avevano portato le persone sul sagrato della cattedrale cattolica.
In quel luogo i pacifisti si erano riuniti in preghiera, con una scena che il giornalista definiva “in un certo senso grandiosa”, alla presenza anche del vescovo Ratko Perić, che alla domanda sull’utilità della marcia aveva risposto paragonandola polemicamente alla medievale Crociata dei bambini.
Il giornalista infine concludeva l’articolo riferendo che Don Bizzotto, che si era fermato al posto di blocco croato, aveva proposto di andare a piedi in città con chi non era potuto entrare in precedenza “in segno di unità”, ma al passaggio della carovana “la gente si è chiusa nelle case”.
Sempre nella stessa pagina l’articolo di Blondet era affiancato da un trafiletto che tentava di fare chiarezza sui gruppi in cui si era divisa la marcia della pace, ricordando che oltre alle 58 persone separatesi domenica, vi erano anche altri 15 pacifisti in marcia per Sarajevo come già riferito dall’”Avvenire”.

Sul quotidiano di ispirazione cattolica l’11 agosto veniva presentato, tra la prima e la terza pagina, un editoriale del presidente delle Acli Giovanni Bianchi, il quale, dopo una riflessione sulla guerra e sul futuro ruolo della religione per ritrovare la convivenza, concludeva dichiarando che solo “gli uomini della pace” sembravano aver colto “l’allarme di Marek Edelman” che paventava “il ritorno di una colpevole indifferenza, anticamera della tragedia possibile.”.
Lo stesso giorno era presente anche l’usuale reportage di Blondet, dove si riferiva che la maggior parte dei pacifisti si apprestavano a tornare alle proprie case, mentre un gruppo di 160 persone aveva deciso di restare a Spalato per organizzare manifestazioni sul posto e ritentare la marcia su Sarajevo.
Blondet riportava poi le dichiarazioni di alcuni pacifisti tra le quali quelle di Don Bizzotto, che si riteneva soddisfatto dall’aver raggiunto Mostar e ammetteva “i difetti e l’improvvisazione dell’apparato organizzativo”. Il giornalista ricordava che vi erano però anche voci di dissenso, in primis quelle dei francesi di “Equilibre”, dissociatasi dai “Beati i costruttori di pace” anche nella spedizione verso Mostar, in quanto secondo loro la scelta di una cattedrale cattolica aveva dato all’iniziativa “un significato confessionale”.

Anche il 12 agosto l’”Avvenire” pubblicava un editoriale, firmato in quest’occasione da monsignor Luigi Bettazzi reduce dall’esperienza di “Mir Sada”, il quale riepilogava sostanzialmente i risultati ottenuti dai pacifisti. Monsignor Bettazzi affermava dunque che era stata la “guerra vera” ad impedirgli di arrivare a Sarajevo, come a costringerli poi a recarsi in pochi a Mostar e a sostare solo presso la cattedrale cattolica, ma che proprio questi fatti testimoniavano anche la volontà e l’impegno di pace di chi voleva manifestare la solidarietà alle vittime della guerra e allo stesso tempo stimolare l’Onu e i governi ad azioni di interposizione massiccia.
Bettazzi sottolineava poi che i mezzi di informazione avevano tentato di far passare il messaggio che fosse saggio uccidere e criminale lasciarsi uccidere manifestando la pace, ma ricordava che bisognava avere sempre speranza dato che, anche se al passaggio dei pacifisti si erano chiuse molte case, alcune si erano invece aperte con commozione alla pace.
Sempre il 12 un altro articolo riferiva che 714 pacifisti erano rientrati ad Ancona, mentre gli “irriducibili” erano rimasti a Spalato con Don Bizzotto, proponendo che le trattative di pace fossero spostate da Ginevra a Sarajevo per bloccare i bombardamenti e coinvolgere la società civile. Nel testo si riferivano le testimonianze di alcuni reduci della marcia, ed in particolare Giovanni Bianchi delle Acli dichiarava che, con le molte fazioni di ribelli presenti sul campo, era impossibile “attivare un tentativo di interposizione umanitaria” e che era ormai finito “il tempo del paracadutismo pacifico”.
Un trafiletto infine riferiva che 58 persone erano giunte il giorno precedente a Sarajevo, mentre Don Bizzotto era ripartito da Spalato con due pullman di persone per tentare di raggiungere di nuovo la capitale bosniaca.

Il 15 agosto infine l’”Avvenire” dedicava un lungo articolo all’arrivo a Pordenone dei pacifisti di “Mir Sada”, recatisi poi a manifestare per la pace presso la base Nato di Aviano, proponendo inoltre alla comunità internazionale cinque punti da “mettere in atto per salvare la pace e la dignità della persona umana”.

Il quotidiano “La Stampa” invece, che aveva spesso seguito dettagliatamente il conflitto bosniaco, nei giorni che precedettero l’inizio della marcia “Mir Sada” non fece lo stesso con l’iniziativa dei pacifisti occidentali.
Il 21 luglio infatti la “Stampa” cominciava a dare notizia dell’imminente partenza della marcia “Mir Sada”, ma lo faceva solo con un articolo pubblicato in prima pagina nell’edizione locale di Novara.
Il motivo di tale pubblicazione risiedeva infatti esclusivamente nel fatto che vi erano già venti persone del novarese pronte a partire per la marcia, e si ricordava inoltre come per costoro fosse la seconda spedizione verso Sarajevo, dopo che avevano già partecipato a quella del dicembre 1992 organizzata sempre dai “Beati i costruttori di pace”.
Nel testo venivano riportate poi le parole del coordinatore provinciale dell’iniziativa, don Renato Sacco, il quale si augurava una vera e propria “mobilitazione di massa, l’invasione di una moltitudine di persone […] per riprendere la via della pace”. L’articolo si concludeva infine con i dettagli del viaggio, che avrebbe visto i novaresi partecipanti recarsi via terra fino a Spalato, in Croazia, per ricongiungersi con gli altri pacifisti e dirigersi verso Sarajevo.

La “Stampa” ritornava poi solo il 30 luglio a dedicare un piccolo trafiletto all’iniziativa dei pacifisti, ricordando che la marcia sarebbe partita il 2 agosto per concludersi il 14, e annunciando che vi avevano aderito anche 15 obiettori di coscienza torinesi, che si erano premurati di inviare una lettera al Presidente della Repubblica per annunciargli le loro intenzioni.
Anche il 31 luglio il quotidiano torinese dedicava un altro trafiletto alla marcia “Mir Sada”, ma senza aggiungere informazioni rispetto al giorno precedente, e ricordando solo le diverse nazionalità dei diecimila manifestanti previsti dalle associazioni organizzatrici.

Domenica 1 agosto invece la “Stampa” tornava a dedicare un intero articolo alla partenza della marcia, ma lo faceva nuovamente per incentrarlo sulla presenza dei volontari novaresi, ed infatti veniva pubblicato tra le pagine dell’edizione di Novara. In particolare, i due giornalisti autori dell’articolo si soffermavano sulle iniziative che le parrocchie della provincia di Novara avevano promosso per manifestare solidarietà ai volontari partiti il 31 per la Bosnia, iniziative che prevedevano momenti di preghiera, semplici esposizioni di lenzuola bianche e lumini alle finestre, ma anche incontri e dibattiti sul conflitto in atto. L’articolo si concludeva poi con una rettifica riguardo al percorso dei pacifisti, che avrebbero raggiunto Spalato partendo con un traghetto da Ancona, e non più via terra come inizialmente segnalato, mentre infine si prevedeva ottimisticamente che i primi volontari sarebbero giunti a Sarajevo già mercoledì 4 agosto.

La “Stampa” si disinteressava poi dell’iniziativa dei pacifisti sino al 5 agosto, giorno in cui pubblicava un trafiletto tratto dall’Ansa e corredato da una grossa immagine dei volontari che erano entrati in Bosnia il giorno precedente, senza specificare però che l’inizio della marcia era avvenuto in seguito a lunghe assemblee tra i partecipanti.
l quotidiano torinese riferiva poi che i pacifisti partiti erano solo 800, e non alcune migliaia come previsto, mentre altre 400 persone erano rimaste a Spalato in attesa di riuscire a recuperare mezzi di trasporto per muoversi verso Sarajevo, ma senza alcuna protezione militare da parte dell’Onu.
Il giorno successivo invece, la “Stampa” riservava alle notizie sulla marcia pacifista le ultime righe dell’articolo dedicato alla guerra in Bosnia e ai preparativi militari della Nato presso la base di Aviano. In realtà l’unico aggiornamento sull’avanzata dei volontari era che questi erano stati fermati a Prozor dalla polizia croato bosniaca, e solo dopo lunghe trattative avevano ottenuto il permesso di pernottare in città.

Il 7 agosto però la “Stampa” riparava alle scarne informazioni fornite fino a quel momento sulla marcia “Mir Sada” pubblicando un reportage di Massimo Gramellini, inviato per l’occasione da Sarajevo a Spalato per seguire da vicino l’evolversi dell’iniziativa dei pacifisti.
L’articolo era tra l’altro posizionato al di sotto di una lunga ed interessante intervista ad Oriana Fallaci a riguardo del conflitto in Bosnia, con un’attenzione particolare alla sorte dei bambini bosniaci e molti riferimenti al libro della giornalista “Lettera a un bambino mai nato”, che si adattava tragicamente bene alla situazione della ex Jugoslavia.
Nel reportage di Gramellini si riportavano sostanzialmente le fasi della lunga assemblea dei pacifisti svoltasi due giorni prima, assemblea con la quale avevano infine deciso di non proseguire la marcia. Il giornalista riferiva che Alain Michel, pacifista francese dell’associazione “Equilibre” tra le organizzatrici della marcia, era alla guida di coloro che volevano rinunciare all’iniziativa, e costui affermava che anche se tutti i partecipanti avevano accettato il rischio della morte, se fossero entrati in Bosnia il rischio sarebbe diventato certezza e qualcuno li avrebbe usati come ostaggi.
Di parere opposto era invece don Albino Bizzotto, l’altra guida della marcia, il quale era convinto che continuare “Mir Sada” avrebbe potuto cambiare le sorti della guerra, ma avvertiva che coloro che avessero scelto di partire con lui dovevano sapere che rischiavano di non tornare più.
Al termine dell’assemblea Gramellini aveva poi intervistato don Bizzotto, il quale aveva sentenziato chiaramente che “in guerra si muore. E non è possibile pensare che la pace debba costare meno della guerra.”. Gramellini riferiva però che alla fine la maggior parte dei pacifisti presenti a Spalato, tra i quali anche il parlamentare dei verdi Chicco Crippa, avevano scelto di seguire la linea di Michel e rinunciare alla marcia, mentre alcune centinaia di persone avevano seguito don Bizzotto e si erano diretti verso Prozor.

La “Stampa”, dopo questo aggiornamento tardivo ma chiarificatore sulle perplessità che avevano spinto alcuni pacifisti a rinunciare alla marcia, proseguiva poi con pubblicazioni quotidiane il reportage dell’inviato Gramellini intitolato “La marcia delle colombe”, ed anche domenica 8 agosto pubblicava un articolo originale corredato da due foto dei pacifisti.
In questa occasione il giornalista riferiva della nuova assemblea svoltasi a Prozor il giorno precedente tra i 600 volontari guidati da don Bizzotto, padre Fabrizio Forti e Giovanni Bianchi delle Acli. Per Gramellini, don Bizzotto si stava dimostrando la guida carismatica del gruppo, ma a causa delle pressioni della polizia croata lui e i suoi compagni di viaggio erano dovuti tornare indietro di qualche chilometro per stazionare nei pressi di “una caserma dell’Onu”, dove, secondo il giornalista della ”Stampa”, i soldati avevano “fatto finta di accoglierli volentieri.”.

Anche il 9 agosto Gramellini riportava i nuovi aggiornamenti sulla marcia, e riferiva che il giorno precedente don Bizzotto aveva scelto a malincuore di ritornare a Spalato per l’impossibilità di proseguire in relativa sicurezza fino a Sarajevo, soprattutto dopo lo spiacevole episodio nel quale a Tonino Dell’Oglio di Pax Christi, degli sconosciuti avevano puntato un mitra addosso per farsi consegnare l’automobile. Da Spalato quindi don Bizzotto, assieme al resto dei partecipanti che erano rimasti in città con Albin Michel, avrebbe poi tentato di raggiungere Mostar e la sua cattedrale.
Gramellini riferiva però che cinquantotto pacifisti, in maggioranza francesi ma anche sei italiani di cui riportava le generalità, avevano scelto di proseguire ugualmente e a titolo individuale verso Sarajevo, e la sera stessa erano arrivati indenni a Vitek. L’articolo si chiudeva poi con alcune dichiarazioni di Michel e don Bizzotto che ben mostravano il clima teso di contrasti che si era creato tra i partecipanti alla marcia, sia a riguardo delle scelte che erano state fatte sia per le modalità con cui erano state prese.

Il 10 agosto il reportage “La marcia delle colombe” sulla “Stampa” proseguiva quindi con la descrizione dettagliata della giornata vissuta dai pacifisti il giorno precedente.
Gramellini raccontava di come, dopo aver pernottato a Medjugorje, i mille partecipanti rimasti si erano diretti verso Mostar, per fermarsi però subito a Sirokj Brieg, cittadina a venti chilometri dal capoluogo dell’Erzegovina, in quanto le autorità croate avevano avvisato che la strada era sotto il tiro dei cecchini musulmani.
Dopo aver ottenuto i permessi per lasciar passare dieci pullman, era però ripartita la polemica tra i pacifisti, in quanto don Bizzotto aveva accettato l’offerta dei croati di essere scortati e sostare davanti alla cattedrale cattolica per mezz’ora, mentre Albin Michel voleva rifiutare rivendicando la laicità dell’iniziativa “Mir Sada” e con la stessa motivazione il deputato dei verdi italiani Crippa aveva deciso di abbandonare la marcia.
Alle tre del pomeriggio poi Gramellini aveva preso posto tra i volontari che si dirigevano con i pullman verso Mostar, ma inaspettatamente il giornalista riferiva che tra loro non era presente don Albino Bizzotto, che aveva preferito “lasciare il posto a qualcuno dei tanti che vogliono andare”. Nonostante qualche sporadico colpo di arma da fuoco avesse accompagnato la ridotta carovana, i pacifisti erano arrivati nel piazzale della martoriata cattedrale, e dopo le parole di monsignor Bettazzi avevano osservato un quarto d’ora di silenzio sotto gli occhi attoniti di alcuni abitanti della città.
Gramellini nel frattempo, come già Blondet su “Avvenire”, aveva raccolto le critiche a “Mir Sada” da parte del vescovo di Mostar, il quale sosteneva che “Queste cose non servono a niente. Le manifestazioni bisogna farle a Londra e a New York, nei posti cioè che hanno in mano le chiavi di questa guerra”.
Gramellini riferiva poi che un gruppo di pacifisti si era rifiutato di lasciare lo spiazzo di fronte alla cattedrale, nel tentativo di interrompere il conflitto almeno per qualche ora. In seguito, dopo che monsignor Bettazzi aveva faticosamente convinto tutti a ripartire, sulla via del ritorno la carovana aveva incrociato don Albino Bizzotto che si stava dirigendo a piedi a Mostar con tutti coloro che non avevano potuto salire sui pullman. Senza esitare quindi tutti i pacifisti che avevano partecipato all’iniziativa di fronte alla cattedrale erano scesi dai pullman per unirsi alla marcia e ritornare in città, ma Gramellini interrompeva proprio a questo punto della giornata il suo resoconto, senza riferire se i pacifisti avessero concluso l’ultima iniziativa di don Bizzotto.

Dall’11 agosto si interrompeva però il reportage sulla marcia “Mir Sada” dell’inviato Massimo Gramellini, e la “Stampa” tornava a riferire della conclusione dell’esperienza pacifista con due testi pubblicati nella prima pagina dell’edizione di Novara.
Il primo scritto era firmato da Roberto Lodigiani, collaboratore del giornale reduce dalla marcia a Mostar, che riassumeva brevemente l’accoglienza ricevuta nella città sotto assedio e le condizioni che avevano spinto i volontari a recarvisi, invece di raggiungere Sarajevo come inizialmente previsto.
Il secondo testo invece era un articolo che annunciava il rientro in patria in quello stesso giorno dei pacifisti italiani, e quindi anche dei venti novaresi di cui la “Stampa” aveva già parlato il 21 luglio, tra i quali vi erano anche due di coloro che avevano raggiunto la cattedrale di Mostar il 9 agosto. L’autrice dell’articolo si dilungava poi sulle preoccupazioni che avevano attanagliato parenti e amici dei volontari, durante il tormentato svolgimento della marcia.

Dal 12 agosto invece l’inviato della “Stampa” Massimo Gramellini era tornato a Sarajevo, come testimonia il suo articolo pubblicato il 13 sulle condizioni della popolazione assediata della capitale. Sul quotidiano di Torino si riservava quindi solo un piccolo trafiletto al ritorno dei pacifisti in Italia e al loro nuovo proposito, ossia quello di recarsi presso le basi Nato di Aviano e Gioia del Colle per protestare contro l’imminente intervento militare dell’Occidente.
La notizia era però tratta dall’agenzia “Adnkronos”, e peccava di superficialità in quanto definiva i pacifisti come “I partecipanti alla marcia internazionale per la pace che si è svolta da Spalato a Sarajevo”, quando invece era stato riferito più volte nei giorni precedenti che solo pochi di essi avevano raggiunto la capitale bosniaca, mentre la marcia era riuscita ad entrare in Bosnia ma fermandosi nella città di Mostar.

Sempre il 13 agosto però, la “Stampa” riservava invece molto spazio alle notizie e alle testimonianze dei reduci dalla marcia pacifista nelle pagine dedicate alle cronache locali.
Nella sezione di Torino, ad esempio, un articolo riferiva l’imminente arrivo negli ospedali cittadini di bambini bosniaci feriti, ma riportava anche le dichiarazioni di Monsignor Bettazzi, vescovo di Ivrea appena tornato da Spalato, e soprattutto la testimonianza dell’obiettore di coscienza Antonio Garzena. Il giovane torinese, di cui la “Stampa” ricordava di come rischiasse il carcere per essere uscito dai confini nazionali in quanto gli obiettori avevano gli stessi obblighi dei militari, riferiva che Mostar era una città completamente divisa a metà tra musulmani e croati, e che purtroppo l’arrivo dei pacifisti non era riuscito a fermare i combattimenti per far dialogare le parti in lotta.
Nella pagina dedicata invece alle cronache di Novara venivano pubblicati addirittura tre articoli sulle testimonianze dei partecipanti alla marcia. Il primo riportava un’intervista a don Renato Sacco, parroco di Cesara ed Arola, che raccontava dei momenti di tensione vissuti a Prozor e Mostar, ma anche delle preghiere recitate con la popolazione locale durante il viaggio e del rimpianto per non essere giunti a Sarajevo. Il secondo articolo riferiva invece le testimonianze di alcuni novaresi reduci da “Mir Sada”, tra cui Aldo Porta, il quale, nonostante i pacifisti non fossero riusciti ad arrivare a Sarajevo, riteneva comunque la spedizione un successo per “aver attirato l’attenzione dell’opinione pubblica”, e sosteneva che nonostante le discussioni tra i volontari, ogni decisione era stata presa all’unanimità.
Un’altra testimonianza riportata era quella di Carlo Gori, giovane regista di una compagnia teatrale, che dichiarava di aver partecipato alla marcia pacifista anche per fare esperienza e preparare uno spettacolo da portare successivamente nei campi profughi in Slovenia.
L’ultimo articolo era invece un nuovo scritto del collaboratore della “Stampa” Roberto Lodigiani, il quale raccontava di come la delusione per non poter raggiungere Sarajevo si fosse tramutata in gioia per aver avuto la possibilità di recarsi a Mostar, dove i pacifisti avevano capito in prima persona di come per i cittadini comuni la guerra fosse “un qualcosa di inevitabile” da subire, ed erano diventati il mezzo per testimoniare al mondo il “bisogno impellente […] della pace”.

Un articolo simile appariva poi sulla “Stampa” anche il 14 agosto nelle pagine dedicate alle cronaca di Alessandria, con le testimonianze di due “pacifisti alessandrini” che, appena tornati da Spalato, si erano recati ad Aviano per manifestare contro il possibile intervento militare della Nato.
Il 15 agosto infine la “Stampa” pubblicava un ulteriore importante articolo sull’esperienza dei pacifisti in Bosnia contenente un’interessante intervista di Renato Rizzo a don Albino Bizzotto.
Il fondatore dei “Beati i costruttori di pace”, intervistato durante il presidio di protesta ad Aviano, si dichiarava molto turbato dalla posizione del Papa riguardo ad un intervento armato caritatevole in Bosnia, e, forse anche indispettito dal mancato appoggio ufficiale della Chiesa alle sue iniziative, rilevava che “certi ragionamenti del pontefice sono simili a quelli dei potenti che pensano di mettere riparo alle loro ipocrisie e connivenze affidando alla forza la soluzione dei conflitti.”.
Don Bizzotto poi rispondeva a una domanda di Rizzo sulla posizione che avrebbe consigliato di tenere a Scalfaro riguardo alla guerra in Bosnia, affermando che il Presidente della Repubblica avrebbe dovuto impedire l’utilizzo di basi italiane per interventi militari, proponendo invece di spostare la sede dei negoziati di pace da Ginevra a Sarajevo, perché la presenza delle delegazioni diplomatiche avrebbe garantito il cessate il fuoco e l’arrivo degli aiuti umanitari.


Conclusioni

La “Stampa” quindi, nonostante avesse dato poco spazio alle notizie sulla marcia pacifista prima del suo inizio, si era poi dimostrata dopo l’”Avvenire” il quotidiano più attento tra i giornali italiani al suo svolgimento e alla sua conclusione. Ciò era avvenuto grazie alle testimonianze riportate sulle edizioni locali dei cittadini piemontesi che vi avevano partecipato, ma anche e soprattutto grazie ai diversi resoconti dell’inviato a Sarajevo Massimo Gramellini, che per l’occasione si era spostato a Spalato per seguire in prima persona l’evolversi della marcia “Mir Sada”.

Sugli altri quotidiani invece spesso si riportavano trafiletti contenenti notizie contrastanti sullo svolgimento della marcia, notizie a volte pubblicate anche nella stessa testata a distanza di un solo giorno e spesso provenienti dalle agenzie di stampa. Alcuni grandi quotidiani nazionali poi, ed in particolare il “Corriere della Sera”, avevano dato poco risalto all’iniziativa dei pacifisti occidentali, mentre altri quotidiani minori come il “Secolo d’Italia” l’avevano completamente ignorata.
Inaspettatamente poi i quotidiani di area cattolica come “L’Osservato Romano” e “Il Popolo”, legati rispettivamente alla Santa Sede e alla Dc, avevano dato pochissimo risalto all’iniziativa delle associazioni italiane, ma questo avvenne probabilmente perché “Pax Christi” e “Beati i costruttori di pace” erano associazioni cattoliche di sinistra poco legate alle Istituzioni della Chiesa.
Sulle pagine dell’”Avvenire” invece, anch’esso di area cattolica ma non legato direttamente a un’istituzione o a un partito, la marcia per la pace “Mir Sada” era stata seguita dettagliatamente grazie all’inviato Maurizio Blondet, che non aveva risparmiato le critiche alla disorganizzazione dell’iniziativa, ed erano anche stati pubblicati diversi scritti di eminenti partecipanti della marcia.

Oltre a “Stampa” e “Avvenire” quindi, l’unico quotidiano ad aver seguito con attenzione le vicissitudini della marcia pacifista era stato l’”Unità”, che aveva pubblicato aggiornamenti quasi quotidiani. Significativo risulta però il fatto che, escluso l’“Avvenire” , sugli altri due quotidiani le informazioni sulla sessantina di pacifisti che avevano proseguito a titolo individuale verso Sarajevo venissero spesso tralasciate, questo probabilmente perché una parte degli organizzatori si erano dichiarati contrari a tale iniziativa, evitando addirittura di fornire ai partecipanti materiali, mezzi ed informazioni utili per proseguire, come risulta dalla testimonianza di due volontarie riportata il 12 agosto dal “Giornale”.
Su “Repubblica” invece l’iniziativa pacifista aveva trovato poco spazio durante il suo svolgimento, ma dopo che questa era sostanzialmente fallita si era tenuta sulle pagine del quotidiano romano una certa attenzione sul movimento pacifista italiano.
Difatti, grazie all’esperienza pacifista promossa dalla società civile europea, erano emerse anche diverse riflessioni sulle nuove forme del pacifismo occidentale, in particolare con i testi di Gianni Baget Bozzo e Emanuela Risari, apparsi rispettivamente proprio su “Repubblica” e “Unità”.
Nel primo si annunciava la sostanziale morte del pacifismo occidentale dopo la fine della dicotomia politico-militare tra democrazia e comunismo, in quanto secondo Baget Bozzo non esistevano più basi comuni sulle quali fondare un dialogo, ma rimaneva solo la forza da contrapporre all’estrema violenza dei conflitti in corso nel mondo.
Nel secondo invece Risari si dichiarava critica sui risultati che l’iniziativa dei pacifisti avrebbe potuto raggiungere anche con condizioni più favorevoli, ma sosteneva che avevano comunque dato l’esempio della possibilità di praticare la non violenza nel cuore di un conflitto.


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