Crimini di guerra


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Un pezzo nascosto di storia italiana del Novecento
La commissione d'inchiesta
per i presunti criminali di guerra italiani

Fu costituita con Decreto il 6 maggio 1946 presso il Ministero della Guerra (poi della Difesa).

Con questo atto il Governo italiano, come documentato da F.Focardi e L. Klinkhammer, cercava di evitare che i presunti criminali di guerra italiani venissero consegnati ai governi esteri, da cui venivano richiesti per essere processati.

Infatti la dichiarazione finale della Conferenza di Mosca del 30 ottobre 1943 prevedeva che gli italiani che si erano resi colpevoli di crimini nei paesi occupati dovevano essere "consegnati alla giustizia"; questo fatto era assodato anche per gli stessi diplomatici italiani che seguivano la questione.
Ma la scelta politica di non consegnare i presunti criminali venne motivata attraverso un'interpretazione strumentale della dichiarazione di Mosca da parte del Governo De Gasperi, sostenendo tra l'altro la necessità di svolgere gli eventuali processi in Italia.

Ma il Trattato di pace (nell'art.38 della bozza presentata il 18.7.1946 e nell'art. 45 della versione definitiva firmata il 10.2.1947) prevedeva che l'Italia arrestasse e consegnasse ai paesi richiedenti le persone accusate di aver ordinato, commesso o essere stati complici di crimini di guerra, di crimini contro la pace e di crimini contro l'umanità.

Quindi la ventilata possibilità di sottoporre alla Magistratura italiana militari e civili italiani accusati di crimini di guerra, non poteva schiacciare il diritto delle nazioni colpite da azioni crimini attuate dall'esercito italiano.
In più venivano riconosciute responsabilità dei militari italiani anche per quei crimini contro l'umanità e contro la pace ritenuti addebitabili - secondo l'interpretazione ufficiale italiana - solo ai nazisti.

Allo scopo di rendere meno attaccabile il rifiuto di consegnare i presunti criminali richiesti, il Ministro della Guerra Brosio propose di istituire una commissione di inchiesta strettamente tecnica, per vagliare le accuse ed eventualmente deferire all'autorità giudiziaria gli inquisiti.
Quindi questa avrebbe dovuto essere composta da alti generali ed ex-ministri della guerra dei governi succedutisi dopo l'8 settembre 1943.

Il decreto ministeriale istituì quindi una commissione composta da sei avvocati (di cui tre erano deputati) e tre generali (in rappresentanza delle tre armi: esercito, marina e aviazione).


I tempi di lavoro della commissione

La commissione operò per i primi mesi sotto la presidenza dell'ex-ministro della Guerra il senatore liberale Alessandro Casati. Nell'autunno del 1946 ne divenne presidente l'ex-ministro dell'Aeronautica il parlamentare Luigi Gasparotto, che poco dopo la lasciò essendo diventato Ministro della Difesa (da cui dipendeva la Commissione stessa), ma per diventarne nuovamente presidente a partire dal dicembre del 1947.
Dalla documentazione visionata si è potuto accertare che la commissione proseguiva i lavori ancora nel luglio 1948.
Nell'agosto dell'anno seguente, mutate le condizioni di politica internazionale, la Commissione aveva cessato il proprio lavoro.


La Memoria della commissione.

Nell'archivio dello stesso Gasparotto è depositata la premessa e la prima parte della Memoria redatta dalla Commissione stessa, che illustra l'impostazione sulla cui base venne svolto il lavoro di analisi delle accuse e della documentazione inviata dal Governo jugoslavo.

Nella Memoria compaiono ampie giustificazioni per le azioni criminose dei generali italiani; confrontandole con gli atti di difesa redatti dagli inquisiti (reperiti nello stesso archivio) si può constatare un'assoluta uguaglianza di motivazioni.
Infatti il documento precisa che la commissione "tenuto nel debito conto il particolare ambiente in cui le persone indiziate come colpevoli di crimini di guerra ebbero a svolgere la loro attività".
Singolare è anche la coincidenza dell'analisi della situazione politica e militare fatta della Commissione con quella che emerge nei documenti redatti dai generali inquisiti, in particolare nel testo di Orlando e Robotti del novembre 1941 inviato al comandante della II Armata.

Nella Memoria inoltre viene presentata una ricostruzione storica dell'occupazione italiana dei territori jugoslavi tra l'aprile 1941 ed il settembre 1943 (ovvero parte della Slovenia, della Croazia, compresa la Dalmazia, e della Bosnia ed il Montenegro).
Viene tratteggiata un'immagine positiva del ruolo dell'esercito italiano: questo sarebbe stato ben accolto dalla popolazione (anche perché l'occupazione tedesca era più temuta) ed avrebbe avuto anche il merito di porre un freno alle terribili violenze degli ustascia croati.

Ma, secondo il documento, questa situazione quasi idilliaca sarebbe gradualmente mutata e "nell'estate del 1942, in conseguenza della situazione generale e soprattutto dell'entrata in guerra della Russia, le formazioni ostili assunsero maggiormente consistenza e migliore organizzazione; fra esse primeggiarono quelle partigiane" filo-sovietiche.

A questo punto la Commissione ammette che vennero adottati "veri provvedimenti repressivi, quali l'internamento delle persone sospettate di partecipare alla lotta partigiana o abitanti nelle vicinanza dei luoghi ove venivano compiuti atti di sabotaggio, operazioni di rastrellamento a breve e a largo raggio, ed azioni di rappresaglia per atti compiuti dal nemico in contrasto con le leggi di guerra".

Il documento sostiene che in seguito a "gravi e numerosi … atti di ferocia commessi dai partigiani contro i militari da essi catturati: … le nostre Autorità dovettero adottare dei provvedimenti di rigore che, in altre condizioni, si sarebbero dovuti senz'altro considerare eccessivi".

Quindi la Memoria conclude la parte riguardante la Jugoslavia, ribadendo il ruolo positivo dei comandanti italiani in quanto i delitti "più atroci, le barbare distruzioni di interi villaggi e di edifici" sarebbero stati opera dei gruppi etnici in lotta fra loro, mentre "le nostre Autorità di occupazione" sarebbero intervenute "per assicurare una vita pacifica alle popolazioni".

E' chiaro dall'analisi di questo documento, che ha guidato l'azione della commissione, che questa si è fatta interprete delle indicazioni politiche, che emergono anche dai documenti del Ministero degli Affari Esteri.

Infatti tra i nomi degli italiani richiesti per crimini di guerra figuravano quelli di ufficiali, funzionari, uomini politici che ricoprivano alte cariche nello Stato italiano, come ha scritto il ministro Brosio.
Molti generali, indicati nelle liste della Commissione delle Nazione Unite come criminali di guerra, ricoprivano incarichi nel Ministero della Guerra, addirittura il gen. Orlando, uno dei teorici e degli artefici della repressione in Slovenia, era stato ministro.
Quindi la Commissione più che d'Inchiesta, sembrava un collegio di difesa per quasi tutti gli indagati.
Facevano eccezione alcuni, ad esempio gli alti ufficiali del Tribunale Straordinario della Dalmazia, per cui, leggendo gli atti, si desume che fosse stato deciso il sacrificio forse ad una condanna a qualche anno di carcere.

Ma queste affermazioni vengono puntualmente contraddette da numerose circolari e disposizioni emanate dai generali comandanti, che dimostrano senza alcun dubbio, la feroce volontà repressiva e vessatoria dei comandanti militari nei confronti della popolazione civile e dei partigiani.
Questi documenti erano a disposizione della Commissione, sia direttamente negli archivi militari italiani sia presso quelli alleati.
Ma un'altra conferma di tutto questo emerge dal diario di un cappellano militare, don Pietro Brignoli, edito postumo nel 1972, dal titolo Santa messa per i miei fucilati, in cui lo stesso testimonia le feroci rappresaglie operate dall'esercito italiano; infatti il sacerdote era inquadrato nel II reggimento (comandante prima col. E.Silvestri, quindi col. U.Penna) della divisione Granatieri di Sardegna, operante in Slovenia ed in Croazia tra il maggio 1941 ed il novembre 1942, e prestò assistenza religiosa ai molti ostaggi civili, e ai pochissimi partigiani catturati, che quasi ogni giorno venivano sommariamente “giudicati” dal tribunale di guerra del reggimento e subito fucilati; questo prete, un fervente anticomunista, narra dolorosamente anche del sistematico incendio di villaggi, della deportazione della popolazione nei campi di concentramento e dei continui furti operati dagli ufficiali e dalla truppa verso i civili.


Le liste dei presunti criminali di guerra predisposte dalla commissione

11 settembre 1946. In una lettera al Capo della Commissione Alleata Ammiraglio E. W. Stone, in risposta ad una sua in data 2 maggio 1946, il Presidente del Consiglio De Gasperi scrive che “la Commissione ha redatto un elenco di quaranta nomi di militari e civili, contro i quali può essere elevata l'accusa … di essere venuti meno ai principi del diritto internazionale di guerra e ai doveri dell'umanità”.

23 ottobre 1946. Un primo comunicato della commissione d'inchiesta indicava i nomi di sei inquisiti: i generali Roatta, Robotti e Magaldi, i ten. col. Sorrentino e Caruso, e l'ambasciatore Bastianini.

13 dicembre 1946. Un secondo comunicato della commissione indicava altri otto nomi (fra cui i generali Pirzio Biroli, Gambara e Coturri, e inoltre Giunta e Grazioli.

Dal gennaio al maggio 1947 vennero emessi altri comunicati che indicavano in una ventina gli inquisiti deferibili al tribunale militare per crimini di guerra.

Nell'archivio Gasparotto sono conservate tre liste di lavoro della commissione d'inchiesta in cui sono indicati i nomi di militari e civili accusati da paesi esteri di crimini di guerra e di crimini contro l'umanità:

Situazione al 25 gennaio 1947 12 gennaio 1948 23 marzo 1948
Deferiti 13 28 29 (+1)
Discriminati 23 111 133
Sospesi 7 2 6
Totale 43 141 168

Quindi la lista smentisce i dati indicati da De Gasperi a Stone, ridimensionando le cifre.
Come indica la tabella i quaranta nomi in realtà si riducono a tredici presunti criminali di guerra da deferire al tribunale militare.

La commissione in quasi due anni di lavoro (maggio 1946 - marzo 1948) ha giudicato deferibili al Tribunale militare solo 29 inquisiti (su 168 accusati esaminati a cui vanno aggiunti il personale del campo di concentramento di Arbe, ufficiali, sottufficiali e truppa delle divisioni "Re" e "Zara").

In realtà al gennaio 1948 i criminali di guerra la cui consegna era richiesta al Governo italiano da paesi esteri erano 295, che devono essere aggiunti ai 1697 compresi nelle liste delle Commissioni Onu per i crimini di guerra.

Quindi a fronte di 1992 casi segnalati dai paesi che avevano subito l'accupazione militare italiana e dagli Alleati, la Commissione ne valutò, in base ai documenti citati, 168 e non prese in considerazione le azioni svolte dai militari italiani in Africa (Libia, Eritrea, Etiopia e Somalia) dove vennero usate bombe a gas e venne praticata una durissima repressione, attraverso la deportazione in campi di concentramento, torture ed esecuzioni sommarie anche nei confronti dei civili.

Le conclusioni del Governo

Alla luce di quanto riportato e dei rivolgimenti politici avvenuti tra il 1947 ed il 1948, il processo contro i 29 deferiti al Tribunale militare non fu mai celebrato. Non solo per i noti motivi (la Guerra fredda, per cui si ripuliva il passato di nazisti e di fascisti per utilizzarli nella lotta al blocco sovietico), ma anche perché da parte degli alti generali italiani (per la maggior parte, i medesimi che comandavano l'esercito monarchico agli ordini del Comandante Supremo Mussolini) non vi era nessuna intenzione di condannare i propri colleghi, seppur responsabili di provati crimini efferati.

Infatti l'istruttoria per almeno 26 deferiti dalla Commissione d'inchiesta venne completata entro il gennaio 1948, ma d'altro canto lo stesso Governo italiano era conscio della non opportunità di svolgere processi contro presunti criminali di guerra italiani contemporaneamente a quelli contro i presunti criminali tedeschi (che stavano iniziando in Italia nei primi mesi del 1948), proprio perché “le accuse che noi facciamo ai tedeschi sono analoghe a quelle che gli jugoslavi muovono contro imputati italiani”.

Quindi, come scrisse il 20 agosto 1949 il Direttore Generale degli Affari politici del Ministero degli Affari Esteri, conte Vittorio Zoppi, all'ammiraglio Franco Zannoni, capo gabinetto del ministro della difesa, “la Commissione d'inchiesta che … non doveva dare l'impressione di scagionare ogni persona esaminata …selezionò un certo numero di ufficiali che furono rinviati a giudizio … Fu spiccato nei loro confronti mandato di cattura, ma fu dato loro il tempo di mettersi al coperto … ciò fu fatto con il preciso e unico intento di sottrarli alla consegna [agli jugoslavi ndr]… Ottenuto questo risultato e venuto meno le ragioni di politica estera … il Ministero degli Affari esteri considera la questione non più attuale”.

L'epilogo.

Le conclusioni della questione sono custodite gelosamente negli archivi del Ministero della difesa, ma si può presumere, alla luce dei documenti analizzati, che i mandati di cattura siano stati ritirati ed anche i militari rinviati a giudizio per crimini di guerra abbiano potuto poi concludere (per la maggior parte) la propria carriera nell'esercito dell'Italia democratica e antifascista.

Il Governo italiano, ex-ministri e gli alti quadri militari della neonata Repubblica italiana erano consci dei crimini operati dai militari italiani nel corso delle guerre coloniali e nel II conflitto mondiale e ne avevano le prove documentali.
Ma il Governo ha operato per evitare non solo di consegnare, ma anche di giudicare i presunti colpevoli delle stragi.
A questo scopo consapevolmente ha rinunciato al diritto/dovere di richiedere la consegna e di perseguire i militari tedeschi accusati di strage in Italia.
Infatti richiedere la consegna di numerosi presunti criminali tedeschi per processarli in Italia, avrebbe voluto ammettere il principio e quindi non potersi rifiutare di consegnare i propri presunti criminali di guerra ad altri paesi richiedenti.
Lo afferma l'ambasciatore italiano a Mosca, Pietro Quaroni, con la piena condivisione dei dirigenti del ministero stesso, in una lettera al Ministero degli Affari Esteri il 7 gennaio 1946: “… Il giorno in cui il primo criminale tedesco ci fosse consegnato, questo solleverebbe un coro di proteste da parte di tutti quei paesi che sostengono di aver diritto alla consegna di criminali italiani”.

Quindi la giustizia sta ancora aspettando, non solo per le vittime delle stragi tedesche, ma anche per tutti gli innocenti trucidati o mandati a morire da quei generali italiani primi protagonisti dell'aggressiva vocazione colonialista dello stato italiano.